Pochi disturbi psichiatrici hanno avuto nella letteratura gialla lo stesso successo del disturbo dissociativo dell’identità, anche conosciuto come disturbo di personalità multipla.
Descritto come il risultato di un fallimento del meccanismo d’integrazione dei vari aspetti dell’identità, della memoria e della percezione di un individuo, si presenta come la compresenza di identità alternative separate, ognuna dotata di una sua autonomia psicologica. In tempi diversi, queste identità possono prendere il controllo esecutivo del corpo e del comportamento della persona e influenzarne l’esperienza. Gli studi di casi riportano che quando si va ad indagare il terreno predisponente il disturbo, si incappa in traumi infantili fonte di uno stress emotivo percepito come ingestibile dal bambino, che non può contare su una figura di accudimento capace di aiutarlo a regolare queste emozioni sconvolgenti e soverchianti, per cui il bambino non avrebbe altra strategia difensiva che quella di incapsulare tali esperienze traumatiche nei ricordi di una personalità separata.
In psichiatria è una diagnosi controversa e terreno di scontro. Vi sono molti critici che ritengono che il disturbo abbia origini non traumatiche, ma socio-culturali (ad esempio per induzione da parte del medico che vi crede fermamente), quando non sia addirittura una simulazione che in ambito forense potrebbe sollevare il reo dalle proprie gravi responsabilità. A sostegno dell’ipotesi socio-culturale, vi è l’evidenza che nella storia della psichiatria erano stati riferiti e documentati pochissimi casi fino agli anni ’80 del secolo scorso, cioè fino a quando la moda del disturbo di personalità multipla non è esplosa nella letteratura e nella cinematografia.
È innegabile che la fiction abbia fatto ampio utilizzo di questa diagnosi, fin dai grandi classici, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson (dove però l’emersione della personalità malvagia viene indotta da una sorta di intossicazione) e “Psycho” di Hitchcock.
Un fatto è certo: vi è una grande discrepanza fra l’incidenza del disturbo nella realtà – dove è comunque considerato raro, quando addirittura non si dubiti della sua esistenza – rispetto alla fiction, che invece vi ricorre spessissimo.
L’idea di un altro sé, un lato oscuro, un male celato dentro la persona (e forse anche dentro ognuno di noi) è un tema che in letteratura ha affascinato fin dal capolavoro di Stevenson e che non può non sedurre gli amanti del genere giallo e thriller.
Nella mia esperienza personale di fruitrice di telefilm polizieschi, sono giunta alla conclusione che non ci sia investigatore o poliziotto del piccolo schermo che non sia incappato almeno una volta in un assassino che non sapeva di esserlo. Forse si salva il tenente Colombo, che però è noto, è un telefilm campione di trasparenza: addirittura l’identità dell’assassino è nota fin dal principio.
Anche nella letteratura il disturbo dissociativo dell’identità è un tema abusato (e quindi ha francamente stancato, bisogna dire). Aggiungo che talvolta è utilizzato in modo disonesto e sleale dall’autore, come strategia per confondere le acque, depistare il lettore, non permettergli di raccapezzarsi. L’assassino è l’altra personalità di un individuo innocente: deludente, irritante, ingannevole. Scorrettissimo!
Il giallo è pur sempre un genere che nei decenni successivi alla sua nascita ha codificato regole, spesso riassunte in decaloghi, che lo scrittore dovrebbe rispettare per permettere al lettore di giocare ad armi pari e districare l’enigma utilizzando gli indizi a sua disposizione. Sebbene ormai superate perché giustamente ritenute rigide, limitative e talvolta assurde (Si pensi alla regola n. 5 di Knox: “Non ci deve essere alcun personaggio cinese nella storia” …), e riferite al solo giallo classico di tipo deduttivo, queste regole hanno lasciato nella coscienza di chi legge un’aspettativa di onestà intellettuale che a questo punto viene pretesa da un autore di gialli, in tutte le sue sottocategorie (poliziesco, legal thriller, thriller psicologico, ecc).
“Il romanzo giallo deve essere ragionevolmente onesto con il lettore.” (dal decalogo di R. Chandler)
Per questo motivo un buon giallo non può far comparire il colpevole solo alla fine, non può tacere informazioni cruciali alla sua identificazione, non può far uscire conigli dal cappello del prestigiatore, dove il “coniglio” può essere benissimo una doppia personalità assassina, un Hyde di cui nulla si poteva sospettare fino a quel momento.
“Non ci devono essere né fratelli gemelli né sosia, a meno che non siano stati presentati correttamente fin dall’inizio della storia”, recita uno dei punti del decalogo di Knox. (Sì, lui, quello che ce l’aveva coi cinesi …) Io credo che questa regola dovrebbe essere ancora osservata e ampliata contemplando, accanto ai gemelli e ai sosia, anche le personalità multiple che un personaggio può avere dentro di sé.
Voglio rendere più chiaro il mio pensiero mettendo a confronto due thriller psicologici che sviluppano il tema delle personalità multiple: “Non uccidere” di Mario Mazzanti e “Io sono Dio” di Giorgio Faletti.
Nel primo si sa fin dall’inizio che l’assassino ha molteplici personalità e tutti i ragionamenti e l’azione che si sviluppano sono finalizzati alla sua cattura. L’autore è sincero e la sua abilità narrativa risiede nel tenere comunque alto l’interesse, la curiosità, la suspence fino all’ultimo capitolo. Nel romanzo di Faletti si scopre solo alla fine che l’assassino è l’alter ego di un personaggio che addirittura figurava fino a quel momento come testimone oculare. L’inganno è palese, lo sconforto del lettore è giustificato, la delusione è cocente, la sensazione di aver perso tempo è forte.
Personalmente penso che siano più godibili i romanzi che non contemplano un assassino multi-personalità. Sono più realistici e più capaci di coinvolgere il lettore in una sfida leale.
Chissà che la discussa diagnosi non sparisca dal giallo come è già accaduto per i veleni sconosciuti ed esotici che non lasciano tracce, i passaggi segreti e i maggiordomi assassini … Io non ne sentirei davvero la mancanza.
Ma, come forse è più probabile, il disturbo di personalità multiple, insieme al tema della scissione, del conflitto tra Bene e Male e delle ambiguità dell’animo umano, non cesserà di attrarre e incuriosire i lettori che amano farsi attraversare la spina dorsale da un brivido.