Parte 1 . IN QUESTA PARTE DI SONO DONNE E CI SONO DELITTI
Catinca (Cati)
Salì le scale al buio, aiutata solo da qualche raggio di luna attraverso i vetri e dal corrimano sotto le dita freddissime.
Infreddolite più per la tensione dei muscoli, che per il clima, benché fosse già fine novembre.
Lui non sospettava nulla, sprofondato nel divano davanti a un qualunque inutile programma televisivo, al piano di sotto; ma Catinca era talmente terrorizzata all’idea di essere scoperta, da evitare ogni più piccolo rumore, perfino quello dell’interruttore della luce delle scale.
Piano.
Piano.
Non tremare.
Catinca affrontava un gradino dopo l’altro avvertendo i piccoli movimenti tremolanti dei muscoli delle gambe. Era spaventata perfino dagli scricchiolii nelle giunture che le sembrava di udire. L’aria intorno a lei era sospesa e silenziosa. Accadeva tutti i venerdì sera da quasi un anno, ma lei non si era ancora abituata al senso di colpa collegato alla consapevolezza che stava facendo di nascosto qualcosa di deplorevole agli occhi di suo marito. Perciò saliva al buio. Gli diceva che andava a casa di Emma e Saverio; invece era diretta nell’appartamento di fronte, stesso pianerottolo. Salire al buio era abbastanza sciocco, dal momento che sulla base della bugia che raccontava ad Amedeo, quelle scale avrebbe dovuto comunque percorrerle. Tuttavia questo era il risultato del terrore che le saliva dentro fin dal primo pomeriggio del venerdì, capace di impedirle di fare un movimento di troppo, di dire una parola di troppo, di inavvertitamente suggerire all’uomo col quale viveva un minimo sospetto sulle sue intenzioni. E allora faceva piano.
Amedeo aveva una sensibilità grossolana, con una soglia molto alta e non si accorgeva praticamente di nulla o almeno così pareva, nonostante fosse in realtà un uomo molto sospettoso. Era, in definitiva, sempre pronto a scattare per un’inezia, a cui attribuiva un significato di minaccia, rimanendo tuttavia cieco rispetto a fatti molto più grossi, almeno per lui, che accadevano sotto i suoi occhi. Tuttavia Catinca sapeva di dover stare molto attenta, perché sarebbe bastato poco per perdere tutto. Se Amedeo l’avesse smascherata, l’avrebbe lasciata, abbandonata, ripudiata, fatta sentire una nullità di cui vergognarsi. Così ci si sentiva già, in realtà, forse anche da prima di incontrarlo. Ma Amedeo era capace di fare molto peggio, ne era consapevole.
Così rifletteva Catinca, mentre poggiava il piede sull’ultimo gradino e prudentemente bussava al portone, evitando di far squillare il campanello. Un raggio di luna rimbalzava sulla targa appesa sopra l’ingresso, raffigurante il profilo di una strega sulla scopa. Una strega nera dal ghigno grottesco, in un antro nero, in un silenzio all’interno del quale Catinca era spaventata dal soffio del suo stesso respiro.
Sciocca Cati.
Frivola Cati.
Calmati Cati.
Bussò di nuovo, un po’ più forte, mentre il cuore si allarmò, quando il silenzio fu senza preavviso infranto dalla TV dell’appartamento alle sue spalle. La signora Emma era quasi del tutto sorda e alzava il volume noncurante degli altri condomini. Poi la porta si aprì e Barbara le diede il benvenuto solo con un gesto della testa, perché sapeva che lì sulle scale un “Ciao Cati!” avrebbe provocato un attacco di panico nella visitatrice.
Nel salottino tutto era pronto come sempre: candele, dolcetti, tisane, cuscini, coperte per accucciarsi, sorrisi di altre donne, le streghe, che aspettavano lei. Catinca si rilassò.
Con lei, il cerchio delle donne era completo.
Barbara richiuse la porta alle spalle di Cati. Era una ventottenne robusta e sorridente, con una frangia viola di sbieco sulla fronte. Sulla lingua aveva un piercing e nessun pelo. I suoi modi diretti irritavano i più; nel cerchio delle donne invece era una qualità apprezzata, perché lì si poteva essere se stesse senza finzioni. A Cati questa schiettezza piaceva da un lato, ma la intimoriva dall’altro, come se in qualunque momento le potesse essere sputata addosso una sentenza. Questo però non era mai accaduto, per via delle regole del cerchio.
Quella sera Cati venne accolta con l’affetto di sempre, che ogni volta la commuoveva. Sandra le rivolse un “ciao” squillante e ondeggiante di allegria (perché lì dentro ormai si poteva), accompagnato dai sonagli dei suoi braccialetti metallici. E poi c’era il sorriso di Gabriella, nero di nicotina e caldo come un caffè, che da solo bastava a rassicurarla che tutto andava bene e tutto sarebbe andato bene. Angela la pragmatica sbucò coi suoi fianchi poderosi e rassicuranti dalla cucina con la teiera fumante.
Barbara, Sandra, Angela e Gabriella erano le padrone di casa. Ma il venerdì venivano anche Margherita, Irma, Marina e Cati. Qualche volta c’era anche Sabrina.
Catinca si sfilò le scarpe, prese posto sul suo cuscino e incrociò le gambe sul tappeto. Era passato da tanto, il tempo in cui si era sentita strana e fuori posto. A dire il vero quella era una sensazione che era durata meno di dieci minuti, la prima volta. Poi aveva preso atto di quello che la circondava: donne alte, basse, giovani e anziane, casalinghe, impiegate o professioniste, magre o cellulitiche, etero o lesbiche, bionde, more, castane. Era impossibile sentirsi “quella diversa” in un luogo di donne tutte diverse. Lì andavi bene, sia che parlassi, sia che stessi tutto il tempo zitta. Eri apprezzata, sia che raccontassi dell’ultima causa vinta in tribunale come avvocata, sia che riferissi i dettagli dell’ultima torta salata fatta in casa o dell’ultima gaffe con un uomo.
Lì andavi bene, sempre e incondizionatamente.
«Ci sono novità dal bastardo?» le chiese Barbara a bruciapelo, per niente abituata a prenderla alla larga e per niente preoccupata di offenderla, dal momento che “il bastardo” era ormai per tutte il marito di Catinca. Cati non si scompose, sapeva che nel cerchio delle donne suo marito non piaceva proprio, ma non era importante, perché piaceva a lei.
Non si giudica una donna, nel cerchio delle donne, mai. Ogni scelta è valida, sempre. Era la prima regola.
Per questo poteva essere aperta e sincera (quasi sempre) e parlare liberamente anche se il suo italiano era a volte (raramente) traballante o se quello che aveva da dire erano i soliti dubbi triti e ritriti, quelli che una donna più risoluta di lei avrebbe risolto in mezzo minuto.
Ad esempio Sandra avrebbe chiuso un matrimonio come il suo senza pensarci due volte. Sandra era lesbica, ma insomma, il concetto rimaneva. Barbara, sbrigativa com’era, non ci sarebbe finita per niente, in una storia così complicata. E Gabriella, “Bri”, col suo modo saggio e autorevole, uno come Amedeo nemmeno l’avrà mai incontrato, pensava Cati, perché la sua stessa autorevolezza fungeva da repellente per gli uomini come lui, un po’ troppo, come dire, abituati a comandare. Per quanto ne sapeva, Bri un marito ce l’aveva pure, e anche una figlia grande. Non aveva ben chiara la cosa, ma pare che Bri, pur avendo un buon rapporto col marito, di comune accordo con lui aveva scelto di fare vite separate, in case separate, condividendo solo alcuni momenti che lei definiva “speciali”, mentre la quotidianità la divideva con altre tre donne. Una cosa strana, insomma. Però Bri non le era mai sembrata stramba, anzi.
Alla domanda di Barbara, Cati non prese le difese del marito. Fu invece lo spunto per confidare alle amiche lo stesso dubbio che la attanagliava da un anno, da quando cioè si era sposata con un italiano ed era venuta a vivere in quel palazzo. Lei era capace di vedere i difetti di Amedeo, ma allo stesso tempo le faceva tenerezza proprio per la sua insicurezza e il suo mal celare dietro modi un po’ bruschi il suo bisogno di essere amato.
«Proprio oggi mi ha rimproverato di nuovo. Ma cosa devo fare con lui?» si lamentò Cati.
«Che avrai fatto stavolta di tanto grave?» si intromise Irma.
«Non mi sono ricordata che ieri sera mi aveva detto di cucinargli i carciofi per la cena di stasera. Io in realtà me lo ricordavo, ma al lavoro mi sono dovuta trattenere una mezzora in più, per pulire il disastro fatto da un anziano che poverino ha vomitato in mensa e mica poteva rimanere così… Non ho fatto in tempo a passare pure al mercato coperto a prendere i carciofi perché poi lui si agita se tardo, e allora gli ho fatto il roast beef, che so che gli piace. Ma si è arrabbiato lo stesso, dice che è stufo di una donna che fa sempre di testa sua.» Sentiva che avrebbe finito per piangere in modo incontrollato come era suo solito, se avesse proseguito. Allora decise di non dire altro. Già si sentiva tanto sciocca, se poi avesse anche aperto i rubinetti, sarebbe stata la fine.
Voci solidali si sollevarono dal gruppo. Alcune si rivolgevano a lei, altre esprimevano alla vicina il proprio disappunto. Nel coro si distinsero parole come “assurdo”, “incredibile”, ma il termine più ricorrente era appunto “bastardo”. Bri si sporse verso Cati. «Sembra proprio che come fai, sbagli. Se torni all’ora che vuole lui, non ci sono i carciofi, se ci sono i carciofi, arrivi tardi e lui ti mette in croce con la solita storia che hai l’amante. Così non se ne esce.»
Bri aveva sempre ragione. Era così, non se ne usciva. Lo sapeva bene, perché nell’ultimo anno le aveva provate tutte per farlo contento, per non dargli motivo di lamentarsi. Lei voleva con tutta se stessa la felicità del marito, ma era come se sbagliasse sempre. Eppure doveva esserci un modo. Donne più vere di lei, il modo lo trovavano. La buona moglie fa il buon marito, non si diceva così in Italia? Lei era una pessima moglie, quindi.
Pessima.
Sciocca.
Debole.
«Questa è la violenza che lui ti fa» le ricordò Angela quasi leggendole il pensiero e versandole nella tazza acqua calda per la tisana.
«Si crede il signore del castello. È un violento, Cati, lo sai.» Sottolineò Margherita.
Cati riassestò le natiche sul cuscino. «No, violento no, non mi ha mai menato. Mi vuole bene, a modo suo, ecco.»
Le amiche non insistettero. A Cati però non sfuggirono certi sguardi che sembravano volerle comunicare “No, forse… non ti ha mai menato… ancora…”
In effetti loro non sanno proprio tutto tutto.
«Oggi stavo per farmela sotto dal ridere.» Marina prevenne l’imbarazzo che il silenzio avrebbe portato con sé. Mentre raccontava la sua ultima vicissitudine con un ragazzo impiegato delle Poste, l’ennesima gaffe ai danni di se stessa, come inconsapevolmente facesse apposta a tenerli alla larga, gli uomini, benché manifestasse tutto il contrario, Cati iniziò a ripiegarsi su se stessa. Non che non le interessassero le altre donne, anzi, ma negli ultimi giorni si era sentita molto più triste del solito, come se fosse diventato improvvisamente più difficile continuare a sorridere mentre faceva le sue cose quotidiane. Tutto stava diventando terribilmente pesante.
Hop, hop, Cati.
Hop, hop!
Tirati su.
“Hop, hop!” Le diceva sua mamma da bambina, per darle il coraggio di rimettersi in piedi dopo una caduta dalla bici. “Hop, hop!” Aveva sempre funzionato come una formula magica per iniettarle energia nei momenti bui e rimettersi in pista, con tutta la buona volontà di cui era capace. Ultimamente “Hop, hop!” non funzionava più tanto bene. Le sembrava un’auto-illusione, un inganno. Chi voleva prendere in giro? I suoi errori avevano iniziato ad accumularsi fino al punto da non poterli più ignorare. Troppo pesanti, per riuscire a buttarseli alle spalle. Solo Amedeo riusciva a chiudere un occhio sulle sue mancanze. Le lanciava un sorriso e a lei spariva l’angoscia. Come poco prima, quando strizzandole l’occhio con un sorriso ampio e dolcissimo le aveva comunicato di averla perdonata, per la faccenda dei carciofi. In fondo aveva ragione lui, che ci voleva a fare due carciofi se ci si mette di buona volontà? Per fortuna però era tutto passato. Bastava quello sguardo di Amedeo, quello di ragazzo innamorato, quello con quel luccichio di passione irragionevole e di rapimento senza speranza. Chissà cosa ci trovava, in una ragazza insignificante come lei.
Non sbagliare più, Cati.
Non sbagliare più, punto.
Stava pensando in questi termini, quando si riscosse e riprese contatto con i discorsi del cerchio delle donne. Una risata corale le comunicò che il racconto buffo di Marina era finito e bisognava che ridesse anche lei. Si sentiva in colpa a non aver ascoltato e a fare solo finta di divertirsi.
Non fare la cattiva, Cati.
Non fare l’egoista.
Lei voleva bene alle altre donne, ma in quel momento era troppo presa dalle sue preoccupazioni personali. Silenziosamente si auto-rimproverò, come sempre. Forse le altre non l’avrebbero voluta nel gruppo se l’avessero conosciuta veramente. Incrociò lo sguardo con quello di Bri. Le stava sorridendo benevola, come se anche lei desse poco peso alle battute del gruppo sulle disavventure sentimentali di Marina, e fosse concentrata su di lei, Cati. La stava scrutando, dandole la sensazione di possedere il potere di leggerle i pensieri.
Cati si imbarazzò, immaginò di essere nuda agli occhi di Bri, si vergognò. Si sentì vulnerabile, fragile, una donnina da niente, tra le mani di un uomo che ne faceva quello che voleva, indegna di far parte di quel gruppo di donne tutte più emancipate e capaci di lei. Sì, la regola era che ogni esperienza delle donne era adeguata, ogni vissuto era degno, ma in realtà questo non poteva valere anche per lei. Perché lei dubitava perfino di essere una vera donna. Non era altro che un’aliena, che solo Amedeo riusciva ad amare, almeno finché non avesse fatto errori talmente gravi da giocarsi anche il suo affetto. Era in bilico, a rischio sull’orlo di un precipizio.
Tutto ciò che aveva di importante e prezioso stava al piano di sotto. Era suo marito e lei, ingrata, gli aveva mentito per mesi. Per cosa? Per compiacere delle donne simpatiche e solidali sì, ma con obiettivi troppo diversi dai suoi.
Sleale.
Bugiarda.
Irresponsabile.
Arrossì per il moto di rabbia contro se stessa. Mise insieme qualche parola di scusa, che era tardi, che doveva andare, buonanotte a tutte, a venerdì prossimo (forse), rinfilò le scarpe e uscì.
Scese le scale con passo sempre più pesante. Non aveva più senso fare piano. Dentro di sé aveva preso una risoluzione, di immediatamente abbandonare idee assurde di libertà e tutti quei grilli che subdolamente le si erano insinuati nella testa frequentando Bri e le sue compagne. Andavano bene per loro, non per lei. In quel momento Cati sentiva dentro di sé che sarebbe stata felice solo nella devozione a suo marito e nel vederlo felice. Che altro poteva essere più importante di questo? Sorrise tra sé, per la ritrovata lucidità, mentre infilava la chiave nella toppa.
Non appena scostò la porta dal suo battente, la vide.
Sfilò lentamente la chiave mentre i suoi occhi rimanevano fissi su quella luce di cui conosceva benissimo il significato. Le pupille marroni di Amedeo rilasciavano quella luce lì, ogni volta che era deluso di lei. O arrabbiato. Ma stavolta c’era dell’altro. C’era anche una ruga dritta e feroce tra le sopracciglia e altre rughe concentriche a fare da cornice a denti esposti in un ghigno di rabbia.
Cati chiuse la porta alle sue spalle espirando tutta l’energia che aveva in corpo. Le gambe le divennero molli e dalla gola le salì un desiderio irrefrenabile di pianto. Gli occhi le divennero velocemente umidi e la vista appannata non le permise di schivare per tempo quello che lui le lanciò in pieno viso. Una scatolina leggera rimbalzò sulla sua guancia destra e cadde a terra. Cati quasi svenne quando vide di cosa si trattava: era la confezione di anticoncezionali.
L’aveva trovata.
«Puttana.» Era un giudizio definitivo, che respinge ogni appello e nemmeno lo contempla. Ammesso che esistessero parole di spiegazione efficaci, non le vennero in mente in quel momento, in cui era come se l’universo intero implodesse dentro. Come avere nel petto il processo contrario al big bang. Rimase immobile, le spalle curve sotto una colpa pesantissima. Cosa le era venuto in mente di prendere la pillola all’insaputa di suo marito? Errore enorme. Se ne rese conto allora: un tradimento non giustificabile, né agli occhi di Amedeo, né ai suoi stessi occhi.
«Vado in cerca delle caramelle per la tosse e non le trovo. Allora penso che potrebbero stare da te, sul tuo comodino. E guarda cosa trovo, invece!» La voce roca di Amedeo vibrava di indignazione.
La scatola col blister della pillola non stava sul comodino, ma dentro, in fondo al cassetto più basso, nascosta tra la biancheria, dentro un calzino. Non era possibile che l’avesse trovata per caso, doveva aver frugato anche dove era del tutto evidente che non potessero esserci le caramelle per la tosse. Colse l’incongruenza, ma la vergogna e la paura non le permisero di ribattere indignandosi a sua volta.
Amedeo si guardò intorno, superò una breve indecisione, poi si scagliò nella direzione del divano. Afferrò il copridivano, tentò di strapparlo tirando con i pugni stretti su due lembi del tessuto e non riuscendoci, lo portò alla bocca.
Raggiunse il suo intento usando i denti. Strappata una piccola parte, tirò con le mani e il copridivano si aprì in due.
Cati adorava quel copridivano; era stata lei a sceglierlo. Color blu e oro. Subì la sua distruzione zitta e umiliata. Lui continuò rabbiosamente a strappare ancora e ancora, con dei mugugni che esprimevano disprezzo. Quando poi sembrò perdere interesse in questa attività, Cati trovò il coraggio di andare verso di lui. Gli sfiorò una spalla per cercare di calmarlo. Lui si rivoltò con violenza, fece per spingerla via con una manata, ma strada facendo la mano si chiuse a pugno e la colpì su una spalla facendola ruotare.
Cati si spaventò perché non aveva mai visto Amedeo così furioso. Non così tanto. Disse a se stessa che non voleva farle male, era solo tanto arrabbiato ed era giusto, perché stavolta lei l’aveva fatta davvero grossa. Imperdonabile proprio. Non era un pugno forte, in fondo. Doveva assolutamente spiegare, perché lui capisse. Le parole non venivano; doveva farle venire, punto.
«Amedeo…» aprì il discorso piangendo, mentre al rientro dal pugno si voltò verso suo marito.
Non fece in tempo ad ultimare la rotazione, che una mano grande le strinse la gola e la spinse distesa sul divano. Sentì un dolore più acuto dove lui stringeva coi pollici. Un dolore più pesante e ampio la colse invece nel ventre, dove lui poggiò il ginocchio montandole sopra con tutto il peso. Divenne terribilmente difficile respirare, ma più di ogni altra cosa, a spaventare Cati furono gli occhi del marito, che improvvisamente si erano svuotati di ogni sentimento umano, fosse anche la rabbia o il disprezzo: erano occhi vuoti a cui sembrava inutile appellarsi.
Non tollerando quella vista, Cati chiuse i suoi, di occhi. Pensò che fosse finita. Pensò che le sue amiche avessero ragione; come al solito era lei quella ottusa e sciocca. Non gliel’avevano mai detto, ma di sicuro è così che la vedevano. Pensò a quanto fosse paradossale la vita, che la abbandonava proprio per mano del suo amore, lei che aveva sempre messo la felicità con il proprio uomo al di sopra di tutto e di tutti e di tutte.
Al di là del velo di lacrime e delle oscure barriere attorno alle orecchie che sembravano ovattare tutti i suoni, percepì la ferocia delle parole pronunciate da Amedeo.
Puttana.
Ti ammazzo.
Cagna.
Il diaframma era completamente schiacciato sotto la pressione del ginocchio e dalla gola sembrava non potesse più passare aria se non per alimentare lievi e inutili gracidii. Le tempie sembravano voler esplodere e dalla bocca spalancata la lingua ormai se ne usciva senza dignità.
Era proprio la fine. Cati pensò che fosse giusto così, la vita puniva la sua colpa, l’amore si rivoltava contro il suo tradimento. Quello che stava avvenendo non era altro che il normale corso della giustizia.
Non ti spaventare, Cati.
È la Giustizia.
Muori Cati.
Poi all’improvviso accadde, che l’aria rifluì nei polmoni e il peso sulla pancia diminuì fino a svanire. Il petto d’istinto si gonfiò completamente. Amedeo si era tolto e l’aveva lasciata.
Subito dopo udì la porta dell’ingresso che sbatteva.
Rimasta sola, Cati si rotolò su un fianco, abbracciandosi le spalle, tossì e pianse tanto.
Sentiva un grande bisogno di farsi abbracciare, magari da Amedeo dopo averla perdonata, oppure da Bri, da cui si sentiva voluta bene come da una mamma. Si sentiva tanto imperfetta e inadeguata, che solo una persona capace di chiudere gli occhi sui suoi orribili difetti avrebbe potuto amarla. Pensava questo di suo marito, o almeno l’aveva pensato fino a poco prima. Qualcosa di diverso era accaduto quel giorno e passato lo spavento cercò di metterlo meglio a fuoco dentro di sé.
Lui stava per ucciderla. E lo stava facendo con quello sguardo vacuo che era peggio dell’odio. In effetti tutto stava in quello sguardo, più che nel fatto in sé. Era abituata a giustificare gli scoppi d’ira di Amedeo, perché davvero con lei ci voleva tanta pazienza; stavolta era andata peggio di altre volte, ma il motivo era che lei aveva fatto qualcosa di più grave. Dunque non era questo. Quindi cosa?
Forse lo sguardo era la vera novità. Era quello che l’aveva davvero spaventata. Per la prima volta le si insinuò il pensiero che fosse Amedeo ad avere qualcosa di anomalo, un po’ come le donne del cerchio le avevano suggerito più volte.
Non sei tu che non vai.
È lui.
Quando si tirò su dal divano, perché il pianto era finito e non c’era più materia prima per continuarlo, respirò a fondo, sollevata solo un pochino dal fatto che lui non era ancora tornato e forse aveva un po’ di tempo per cercare di capire cosa stesse accadendo e perché.
Hop, hop!
Nel tentativo di fare ordine nei pensieri, le venne spontaneo fare intanto ordine intorno a sé. La gola le faceva molto male a ogni deglutizione e ogni tanto aveva accessi di tosse, ma era come se prima di occuparsi di sé dovesse occuparsi di altro. Amedeo aveva lasciato il copridivano strappato, pezzi di stoffa gettati a terra. Li raccolse, sperimentando un’emozione inedita.
Di solito era ansia, quel nodo nello stomaco che sentiva, oppure senso di colpa, quel carico che premeva sulle scapole. Quel giorno discriminò tensione nella mandibola, la tensione che si sente quando si digrignano i denti.
Rabbia.
Cattiva Cati.
Le lacrime che provarono a salire di nuovo dovettero fare uno sforzo straordinario prima di fallire, ma Cati lo sentiva: stavolta sarebbe diventato un pianto di rabbia e di odio, se solo gli avesse permesso di venire fuori.
Dapprima si affacciò il tipo di idea che le era abituale. Pensò di ricucirlo, il copridivano, anche se sarebbe risultato comunque inutilizzabile e brutto, solo per dimostrare quanto ci tiene a fare bene, a rimettere insieme quello che è andato in frantumi, per mostrare la buona volontà di essere una brava moglie, a qualunque costo, anche quando appare uno sforzo inutile.
Ma subito dopo prevalse la rabbia che fino a quel momento non le era appartenuta. Era il suo copridivano. Era blu e oro. L’aveva acquistato coi soldi del suo lavoro, per contribuire a rendere bella la casa di Amedeo, dove pensava che sarebbe stata felice anche lei. Non aveva i mezzi per fare tanto di più, perché i suoi due lavoretti erano umili e poco remunerativi, ma era il suo meglio e lui l’aveva distrutto.
Rivide i gesti di Amedeo. Si era guardato intorno, aveva cercato, prima di fiondarsi sul copridivano. Aveva scelto e deciso, non era fuori di sé da non capire cosa facesse. Aveva cercato intorno a sé e individuato l’oggetto da colpire, per colpire lei.
Le mancò il respiro.
Sentiva l’odio che ancora una volta le serrava la mandibola; cercò di ricacciarlo indietro.
Cattiva Cati.
Non si fa.
Sei cattiva dentro.
Di fronte a quell’emozione che non riconosceva come propria, non sapeva bene come comportarsi, come gestirla. E lui, l’odio, temporaneamente prevalse. Catinca lasciò cadere il frammento di stoffa che aveva raccolto, andò in bagno e si guardò allo specchio. La sua gola era tutta rossa. Si vedevano le impronte dei pollici che avevano spinto sulla sua trachea. Gli aloni rossi erano grandi, facevano pensare a dita enormi. Faceva ancora tanto male.
Cati si guardò negli occhi. Si guardò come mai prima. Guardò una donna diversa. Una donna arrabbiata. Il copridivano aveva modificato lo scenario.
Mettere le mani alla gola poteva anche giustificarlo. Con uno sforzo in più si poteva fare, così come aveva giustificato le tre volte che aveva preso uno schiaffo e la volta che lui le aveva afferrato la coda di cavallo e tirato, per obbligarla a piegare la testa all’indietro, mentre le sussurrava davanti al viso.
Sei una donna da niente.
Da niente.
Si era detta che lui non poteva non perdere le staffe, visto che era stata lei a sbagliare (Ritardo di sette minuti – schiaffo; vasetto della panna da cucina scaduto – schiaffo; sms scherzoso di risposta ad una amica – schiaffo; non immediata disponibilità alla richiesta sessuale – Sei una donna da niente).
Hop, hop, Cati,
Rimettiti in carreggiata,
D’ora in poi sarai perfetta e non sbaglierai più,
Lui sarà felice e pure tu.
Continuava a ripensare ai brandelli del copridivano blu. Come un veleno le si insinuò un’idea sciocca di piccola vendetta. Scaturiva dalla sua anticipazione dell’evoluzione della cosa. Sapeva che la prossima volta che avrebbe rivisto Amedeo, lui sarebbe stato calmo. Perché sempre così succedeva.
Un momento era furioso.
Paura.
Poi spariva.
Umiliazione.
Poi ricompariva calmo, come non fosse successo niente.
Stupida. Forse ho capito male. Forse non è successo niente.
Poi era dolce e premuroso, come pentito, ma senza dirlo, che era pentito.
Non è successo niente. Lui mi ama. Perché ne ho dubitato?
Cati solitamente assisteva a queste mutazioni sempre uguali, attendendo l’ultimo step, quello in cui le sembrava che si potesse finalmente essere sereni e appagati di un amore troppo grande per essere gettato via.
La volta del copridivano introdusse un elemento di novità, non tanto nel comportamento di lui, quanto nelle percezioni di lei. Infatti dentro di sé non la definiva “la volta che ha cercato di uccidermi”, ma “la volta del copridivano”. La volta cioè in cui Cati intravide una intenzione precisa nelle azioni di Amedeo. Non più la logica reazione ad una sciocchezza fatta da lei, ma la volontà di umiliarla e schiacciarla, deliberatamente.
Bri aveva cercato di farglielo capire tante volte, ma solo ora Cati rimetteva insieme i pezzi delle conversazioni. Anche le altre donne del cerchio avevano capito.
Sistema di potere.
Abuso dei privilegi maschili.
Manipolazione affettiva.
Controllo.
Tutte espressioni che aveva memorizzato senza decifrarne il senso. Le sembravano così lontane da lei!
Iniziava a capire ora.
Anche il termine “bastardo”, uscito dalla bocca delle donne del cerchio decine di volte, divenne parte del suo nuovo modo di pensare. Rimuginava senza sosta, mentre rimetteva a posto il salotto, gettando nel secchio il blister della pillola. Dopo un tentennamento, gettò anche la stoffa strappata.
Era l’una e mezza di notte, quando Amedeo rientrò.
Lei era accucciata, distesa sul divano davanti alla TV accesa, ma senza guardarla. Lui le si avvicinò, mostrando tutto il dolore, il dispiacere e lo smarrimento di un uomo attraversato da una sofferenza indicibile. Si sedette sul divano nello spazio lasciato libero da lei. «Abbracciami» disse come sull’orlo di una crisi di pianto.
Cati obbedì.
Non avrebbe saputo dire come si sentiva, in quell’abbraccio che da sempre era il suo rifugio e la sua consolazione. C’era l’odore della pelle di Amedeo e del suo dopobarba che si sentiva appena appena. C’era il pelo del suo maglione a far solletico sul naso e a riscaldarle la guancia. C’era il suo collo davanti agli occhi e le sue braccia attorno alle spalle.
«Ho passato le ore più terribili della mia vita» disse lui.
Nel discorso esplicito c’era anche il significato implicito.
È colpa tua, Cati.
Sei tu che lo fai sentire così male.
«Ho girovagato qua intorno confuso, senza nemmeno ricordare bene cosa è successo.»
Non è vero, bugiardo.
O forse è vero, stupida.
«Ma so che ho sbagliato, Cati, ho fatto una cosa orribile. Ti ho fatto male?» La allontanò da sé per esaminarle i segni sul collo. «Ti fa male?»
Abbracciami.
Fallo passare.
Fammi dimenticare.
Cati si riabbandonò fra le braccia di Amedeo, che piangeva.
«Perdonami amore mio, ho perso il controllo, mi sono fatto trascinare, non sapevo quello che facevo. Ero fuori di me, capisci. Io non so come ho potuto.»
Lo sapevi e lo volevi fare.
O forse no. Forse ti ho ferito talmente tanto che eri sconvolto e smarrito.
Non lo so, non lo so, non so più niente.
«Cati, perché l’hai fatto, perché… io mi fidavo di te… Non sognavamo di avere dei bambini? Perché hai fatto questo alle mie spalle… Io mi sono sentito tradito e non ci ho visto più!»
Sì, è vero.
È colpa mia.
Sono io.
«Io voglio fidarmi di te, ma come faccio?»
Non ti fidare di me, sono un’egoista.
«Ma io ti amo e non mi arrendo. Voglio che siamo felici, Cati.»
Sì, anch’io… dimmi cosa devo fare. Ti prego.
«Mentre ero fuori ho pensato tanto e mi sono detto che non è colpa tua Cati, tu sei ingenua e dolce, non è colpa tua. Qualcuno ti influenza.»
Ha scoperto anche questo. Sa del cerchio.
Sono un disastro.
È colpa mia, è colpa mia, sono io, sono sempre io.
«Se tu mi perdoni, perché lo so di aver sbagliato… Io ero accecato, capisci, io ti amo troppo, è questo il motivo. Ti amo troppo e poi esagero. Però, se mi perdoni, io ti giuro che non succederà più. Anche tu devi fare la tua parte, però. Io devo vedere che tu fai la tua parte. Altrimenti io impazzisco, capisci, io non ci vedo più, non capisco più niente e poi capita che faccio quello che faccio. Io ti guardo con quei segni rossi alla gola e impazzisco, ti giuro impazzisco e mi dico, ma io sono stato capace di fare questo? Io sono stato capace… perché ti amo da impazzire, Cati, ecco perché.»
Tu mi ami e io ti tradisco.
Svergognata.
Vorrei dirtelo, dovrei dirtelo, ma le parole non escono di bocca.
«Nessuno si deve mettere tra te e me. Io voglio che tu sia solo mia, capisci, solo mia. Mi devo fidare di te. Domani vado da Emma e le dico che non vai più a casa sua a pulire. Basta. Eri un angelo quando ti ho conosciuto, quella vecchiaccia ti influenza, non voglio che ci vai più, a pulire. Te lo dico sempre, che non c’è bisogno, il mio stipendio ci basta e avanza. Domattina lo vado a dire a Emma, che si arrangi per le pulizie. Che si trovi qualcun altro da sfruttare, per quei due soldi che ti dà, quella spilorcia. Spilorcia lei, spilorcio il marito e spilorcia pure la figlia. Una famiglia di spilorci. Io ti devo proteggere Cati, non voglio che ti sfruttino. Vedi che poi cambi, diventi diversa e non mi posso fidare più di te. Io ho bisogno di fidarmi, capisci… Allora è deciso, domani glielo vado a dire. Voglio che torni la Cati dolce e sensibile, la Cati che non avrebbe mai pensato di darmi una coltellata alle spalle.»
Non chiedi il mio parere… non mi chiedi perché l’ho fatto, non ti interessa cosa penso, cosa mi ha spinto… non c’entra Emma, non c’entra che mi dà pochi soldi, che poi non è vero che me ne dà pochi. Non sai perché prendevo la pillola e non sai del cerchio delle donne. Hai deciso per me che non lavorerò più da Emma. Ma che c’entra! Però zitta Cati, zitta, sei colpevole e devi tacere, ti conviene. Zitta, non distruggere l’armonia. Se sapesse del cerchio lo deluderesti anche di più.