Costanza e la giustizia
La dirittura morale richiede impegno, sacrificio e una buona dose di coraggio. Si paga un prezzo alto, spesso, ma è più forte di me e non ho mai pensato di sottrarmi.
Si è detto di tutto sul mio conto, compreso che sono pazza. Oppure rigida in modo ossessivo. Come se fosse un po’ la stessa cosa. Ma non lo è. I principi morali pretendono rigidità per loro stessa natura. Il fatto di scendere a patti, li rende vani.
Ne sono convintissima, mentre seguendo il mio intuito e il mio istinto, mi apposto dietro un cespuglio della Cittadella. Il parco di Ancona si trova in cima al colle Astagno, in quella che fu un’area militare. Forse ho scelto questo posto per sentirmi al sicuro, all’ombra di bastioni e mura fortificate. Sono in grande anticipo. Per forza: avrei rischiato di essere preceduta e intercettata se fossi arrivata giusto in tempo.
Mi aggiusto per garantirmi una posizione comoda, per quanto possibile. Il terreno per fortuna è abbastanza asciutto, anche se è freddo. Nella mia postazione non arriva il vento, perché è dietro un montirozzo che mi ripara, mentre il fogliame del cespuglio si muove più in alto, per azione di un venticello invernale pacifico quanto gelido. L’attesa sarà di non meno di due ore, ma non mi pesa. È il prezzo da pagare affinché la Giustizia proceda laddove la legge zoppica e inciampa.
Mia madre mi ha chiamato Costanza, con la seguente motivazione idealistica: con la tenacia, non c’è obiettivo che non si possa raggiungere. Guarda solo avanti, mi diceva, mai indietro, e combatti senza mollare mai. Non so perché per lei fosse così importante questo aspetto, ma immagino che avesse a che fare con le sue personali battaglie. È morta troppo presto per poterle chiedere di che battaglie si trattasse, anche se posso immaginarlo. Comunque, a cinque anni, è già tanto se mi ricordo la sua spiegazione sulla scelta del mio nome, che memorizzai senza averla capita bene, sul momento. Solo questo mi rimane di lei: il mio nome e la raccomandazione ad esso associata.
Io credo di aver fatto onore al mio nome. Non mi ricordo di battaglie lasciate a mezzo, a costo di passare per matta agli occhi di chi la mia persistenza cocciuta non ce l’ha. Se vai a guardare, nemmeno ora, alle sei di una sera di febbraio, al freddo e in procinto di espormi a un pericolo serio, sono disponibile a considerare delle alternative a quello che sto per fare. Nossignore. La cosa giusta da fare è una e una soltanto.
Tanto per cominciare, non sarei qui se la polizia avesse fatto il proprio dovere. Gli avevo fornito tutti gli elementi, con tanto di foto nitidissima che ritraeva il farabutto. Sarebbe stata una passeggiata per loro. Invece, pur di non ammazzarsi di fatica, hanno scelto di trovare tutta una serie di scuse, tra cui la motivazione molto deludente, che non potevano muoversi senza una querela della parte lesa. Non hanno voluto sentire ragioni, nemmeno quando ho provato a spiegare che la povera signora aveva paura a querelare, ma questo non vuol dire che non vi sia un reato da perseguire. Ma niente da fare. E così, subodorando il loro menefreghismo, ho deciso di non far menzione del video incriminante che avevo nel cellulare che tenevo in tasca.
Il tempo fatica a passare e le gambe cominciano a risentire della postura forzata e dell’umidità che ha iniziato a penetrarle. Sono piuttosto tollerante al freddo, dopotutto sono cresciuta in una casa senza termosifoni, ma il non poter fare spostamenti degli arti inferiori per riattivare la circolazione mi sta mettendo parecchio alla prova. Il momento dell’appuntamento si avvicina e posso permettermi sempre meno di fare movimenti che rischierebbero di tradire la mia presenza. Non posso escludere che il delinquente arrivi prima del previsto, anzi devo dare per scontato che lo farà. Gli ho dato istruzioni precise, nella lettera che gli ho lasciato nella buca della posta. Dovrà arrivare alle 19 in punto e andare dritto alla panchina di legno che si trova in una parte seminascosta del parco a cui si giunge attraverso un brevissimo sentierino tra gli alberi. Gli ho descritto con precisione il punto, con tanto di mappa disegnata.
La panchina è la mia preferita, all’interno della Cittadella, perché è scostata dalle vie più battute dai passeggiatori e dagli amanti del jogging. Nei periodi dell’anno in cui le fronde sono meno fitte, si riesce ad avere una certa visuale sul vecchio faro, in lontananza, al margine di un triangolo di mare, che per quanto mi riguarda è una delle poche cose capaci di darmi un po’ di pace. Quando ho dovuto individuare un luogo di incontro in cui mi sarei sentita al sicuro, ho subito pensato a questo, perché la panchina dà le spalle al sentiero, che è l’unica via d’accesso e questo mi dà modo di arrivare alle spalle di chi sta seduto senza essere vista. Ho dato istruzioni al mio pollo di andarsi a sedere senza mai voltarsi, qualunque cosa accada. Io gli arriverò da dietro e l’ho avvisato, di non avere reazioni inconsulte, perché sarò armata.
Mi appartiene, oltre alla tenacia, anche la bravura nel dire bugie. Ero una bambina piuttosto piccola, quando divenni consapevole della mia abilità e non mi ci volle molto per apprezzare appieno tutti i vantaggi del presentare una versione non completamente conforme al vero. Devo dire in tutta onestà che questa facoltà l’ho sempre utilizzata a fin di bene, come in questo caso. Che sono armata, infatti, è una balla.
Mi ribolle il sangue quando vedo le ingiustizie ai danni dei deboli e non posso non mettermi in mezzo. Sarà perché la vita mi ha molto maltrattato e so come ci si sente. Per fortuna che sono Costanza, perché chiunque altra al mio posto non sarebbe sopravvissuta. Sono fatta di un materiale speciale, io, sono più resistente della media e quindi più difficile da abbattere. Ci hanno provato e stanno continuando a provarci, ma io non mi piego e non mi spezzo, anche se sono stata vicina alla rottura più di una volta.
Il segreto sta in tre paroline magiche: attenzione, prudenza, riflessione. Ci sono piccoli dettagli che, se invece di lasciarli passare inosservati come fa la maggior parte della gente, vengono trattenuti, correttamente letti e interpretati, sono chiavi che aprono porte impensabili. L’importante è non fidarsi totalmente dell’impressione superficiale né dell’interpretazione che ne dà l’individuo medio. Bisogna diffidare sempre, andare oltre ed essere capaci di quella forma di coraggio che ci vuole per guardare la verità negli occhi, benché scomoda, dolorosa o amara. Nella vita ne ho incontrate poche di persone così. Se ci penso bene, non ne ho mai conosciuta nessuna. Ecco perché sono così sola.
Se vai a vedere, in quanti abitiamo in quel tratto di strada? Ci sono nove appartamenti nel mio palazzo e poi ci sono quelli che abitano dall’altra parte della strada. Una quarantina di persone almeno, facendo una stima grossolana. Forse di più. In quanti si sono accorti di quello che accadeva sotto i loro occhi? Solo io. Eppure lui non sembra essersi preoccupato troppo di non essere visto, talmente è sicuro di sé. Forse si sente protetto dall’indifferenza della gente, un fattore che senza ombra di dubbio gioca a suo favore. Appena l’ho visto, ho capito che aveva male intenzioni. Io ho il radar per certe cose. È rimasto appostato per diversi giorni non consecutivi ed era chiaro che stava studiando qualcosa o qualcuno. Che ci fosse un piano dietro questo comportamento non l’ho mai messo in dubbio. Per non sapere né leggere né scrivere, come si dice, gli ho fatto qualche foto già dal primo giorno che l’ho notato dalla mia finestra del bagno. Poi l’ho rivisto il giorno dopo e dopo ancora due giorni. All’inizio ho pensato che ce l’avesse con me, che mi stesse spiando per un qualche motivo collegato con Azzurra (dopo quella storia delle microspie non posso più essere sicura nemmeno in casa mia), finché un giorno non l’ho visto arrivare al seguito della signora Buratti, lei davanti e lui dietro di una ventina di metri. La stava seguendo e probabilmente lei non se n’era accorta.
La signora Buratti abita al piano di sotto rispetto a me. È una vedova di una settantina d’anni e la famiglia che le rimane è costituita da un figlio che non la viene a trovare quasi mai, una nuora che la odia e due nipoti che vengono periodicamente per scucirle una percentuale della pensione, benché ampiamente nell’età da lavoro, le bamboccione. È una donna minuta e dolcissima, che non ho mai visto perdere la pazienza, nemmeno quando il figlio le si rivolge senza alcun rispetto. Piangeva come una bambina quando, non più tardi di un mese fa, si è accorta che le avevano rubato la pensione. È accaduto che un uomo l’ha avvicinata mentre era nel supermercato vicino casa e, come se l’avesse incontrata per puro caso, l’aveva salutata presentandosi come un vecchio compagno di scuola di suo figlio.
«Ma come, non si ricorda? Andavo alle medie con Andrea!» le disse.
Lei non ricordava chi fosse, ma sentendo nominare suo figlio fu, poverina, portata ad abbassare la guardia. Lui continuò a parlarle, rievocando episodi di scuola mai avvenuti ma in modo così vago che la signora Buratti non poteva smentire. Sicché, quando lui si offrì di riaccompagnarla a casa portandole la spesa, lei oppose solo una debole resistenza, dicendo che erano poche cose e sarebbe riuscita anche da sola, tanto era abituata a cavarsela da sé da quando era vedova e con un figlio così preso dalle sue cose che veniva sempre meno a farle visita.
«Eh, signora,» disse la canaglia sentendosi sempre di più sulla buona strada, «Andrea è un po’ così, che ci vuole fare. Era così anche da ragazzino.»
«Davvero? Veramente a me pare che fosse un bravo ragazzo. È dopo che si è sposato con quella, che è cambiato.»
L’uomo aveva esitato un po’, prima di imbroccare la risposta giusta. «Ma è proprio quello che intendevo, signora, Andrea è sempre stato in po’ influenzabile, debole. Un bravo ragazzo, e proprio per questo facile da mettere sotto.»
A queste parole, la signora Buratti non ebbe più dubbi. L’uomo che aveva davanti aveva descritto suo figlio con precisione. Non ci pensò proprio, di essere stata lei a indirizzarlo.
«Mi permetta di aiutarla, mi farebbe davvero piacere.» insistette lui. «Se non mi ricordo male abita da queste parti, vero? Così magari mi lascia anche il numero di telefono di Andrea che ho perso di vista da tanto.»
La signora Buratti non riuscì a dire di no e nemmeno voleva. Anzi era contenta che in una delle sue giornate tutte uguali e solitarie accadesse qualcosa di inatteso e piacevole da raccontare al figlio. Rimase prima stupita, quando, dopo averlo lasciato solo per andare a prendere l’occorrente per scrivergli il telefono del figlio e fargli un caffè, tornò in salotto e lo trovò vuoto. La disperazione invece giunse quando, iniziando ad avere un vago sospetto, fece un giro ispettivo della casa e trovò il primo cassetto del comò aperto.
Era stata proprio lei a raccontarmi la sua storia, vincendo le naturali reticenze che aveva nei miei confronti, come la raccontò più e più volte, piangendo, a tutti gli abitanti del condominio. Tutti tranne Salvo, il mio dirimpettaio bastardo, ma questa è un’altra faccenda. Chi più chi meno, tutti le consigliammo di denunciare l’accaduto, ma lei si rifiutò e anzi implorò di mantenere il segreto, temendo la reazione di rabbia del figlio, che di sicuro avrebbe infierito su di lei per la sua stupidità, cosa che già faceva abbondantemente da sola. Ripeteva che non sapeva come fare ad arrivare al mese successivo, ma che questo era il minore dei mali. Preferiva stringere la cinghia piuttosto che affrontare Andrea.
Non ci ho visto dalla rabbia per tanta spietatezza. Noi persone sensibili soffriamo di queste cose in modo particolare e così ho deciso che dovevo fare qualcosa per lei. Avevo delle foto dell’uomo appostato e non solo. Il giorno che l’ho visto seguire la mia povera vicina, prima che si verificasse il misfatto, ma già sicura dentro di me che c’era del marcio in Danimarca, sono scesa e ho seguito a mia volta l’uomo misterioso, che si è incamminato nella direzione da cui era venuto. L’ho pedinato fino a un bar dove si è fermato a ingollare un bicchierino di un liquore scuro e a giocare nelle macchinette mangiasoldi per una mezzora buona. Poi è andato a riprendersi la macchina nel parcheggio di Vallemiano dove l’aveva lasciata, credo apposta non troppo vicino a dove aveva fatto i suoi appostamenti. Prima però aveva indugiato per un po’ davanti a un portone di via Vallemiano e ne aveva studiato il citofono. Una volta partito in auto, l’ho perso.
Quando ho sentito la signora Buratti parlare del furto a casa sua, non ho avuto dubbi che fosse proprio lui il colpevole. Purtroppo però la polizia non l’ha ritenuto un caso di cui occuparsi. Io ci ho provato, a fare una segnalazione.
«In assenza di una denuncia, noi non possiamo procedere.» Mi è sembrata una risposta strana, così come strano era lo sguardo del poliziotto mentre gli riferivo tutto per filo e per segno. Quasi come se fossi io ad avere cose losche da nascondere. Ho capito che era inutile insistere. Il mio dovere civico l’avevo fatto. E se devo dirla tutta, pure il poliziotto mi è sembrato sospetto, al punto che mi ha fatto ipotizzare di essere in combutta col malvivente, dal momento che sembrava quasi volerlo proteggere. Le mie esperienze con la Questura di Ancona, devo precisare, non sono mai state idilliache.
Ho sempre pensato che le forze di polizia servono a mantenere uno status quo più che a fare giustizia; evidentemente il loro mandato è quello di preservare lo schema delle cose senza modificarlo troppo, accettando quindi anche una quota di devianza considerata fisiologica. Contrastano gli sconvolgimenti più che le ingiustizie. A volte capita che l’ideale di giustizia inteso in senso puro sia percepito come sovversivo e pericoloso, e quindi da contrastare, perché la gente ha paura degli sconvolgimenti del proprio mondo, fatto anche di piccole anormalità e innocue disfunzioni. Se ne lamentano, ma in fondo gli va bene così.
Se alla polizia andava bene così, io avrei proceduto secondo coscienza. La mia. E io, come ho già avuto modo di dire, non sono molto flessibile su certe cose. Sono sovversiva.
Come si fa a restare neutri di fronte a una signora Buratti con gli occhi lucidi e lo sguardo perso, mentre ti racconta di come un bellimbusto ha carpito subdolamente la sua fiducia per derubarla di quel poco che le serve per vivere? Mi ero fatta convinta che la breve sosta dell’uomo davanti a un citofono di via Vallemiano non fosse per nulla casuale. Così i giorni successivi mi sono fatta trovare lì, dopo il lavoro. La mia convinzione è cresciuta quando ho visto che da quel portone transitava una signora anziana, più o meno della stessa età della signora Buratti. E poi, al terzo giorno di appostamenti, rieccolo lì, il delinquente. Bingo. Era evidente che stava tramando un altro colpo. Stando attenta a non farmi notare, riparandomi dietro un pilastro del cavalcavia di Vallemiano, ho realizzato dei video dei movimenti sospetti dell’uomo.
L’ho osservato meglio, stando attenta a non essere scoperta. Era alto e robusto, di quelle costituzioni che si sviluppano facendo lavori pesanti fin da molto giovani, più che per eredità genetica. Aveva i capelli abbastanza corti, castani e scomposti e la barba non troppo curata. Una cinquantina d’anni. Nell’insieme però belloccio, con degli occhi a cui era capace di dare un aspetto innocuo e pacifico, quasi triste. Credo che facesse leva su questo, per i suoi agguati.
Neanche a dirlo, la vecchina di Vallemiano subì lo stesso trattamento della signora Buratti un paio di settimane più tardi. Credo di essere stata la prima a saperlo, perché ero lì sotto quando accadde, col mio cellulare che riprendeva alcune delle fasi della trappola, compreso il momento in cui l’uomo accompagnava la signora dentro il portone e il momento dopo, quando lui ne usciva da solo e risaliva rapido nella sua auto.
Ce n’era abbastanza per incastrarlo, compresa la sua targa impressa nella memoria del mio cellulare. Non avrei perso tempo con la polizia, decisi. Ho cercato su Google “targa auto come risalire al proprietario”. Io non ho mai avuto un’auto, non sono pratica. Il risultato della ricerca mi ha suggerito di andare all’ACI, cosa che ho fatto senza perdere tempo. Viene fuori che avevo a che fare con un certo Giuseppe Massari, residente a Osimo.
Con in mano l’indirizzo di casa sua, ho preso il pullman per Osimo e dopo vari giri a vuoto finalmente ho trovato il posto. Ho preso a seguire Massari per quanto potevo, dal momento che non disponevo di un mezzo proprio e lo perdevo ogni volta che partiva in macchina. Facevo attenzione a far passare parecchi giorni tra un pedinamento e l’altro, così da non dargli modo di notarmi e ricordarsi di me. Ho scoperto così altre cosette sul suo conto.
Ero e sono incerta sull’esito dell’impresa, essendo la prima volta che mi do al ricatto, ma incrollabile nella volontà di fare la cosa giusta. È buio. È quasi l’ora convenuta e mi accorgo che il cuore mi batte più forte. Vorrei non averla questa reazione fisiologica, per poter risultare perfettamente controllata e non dare modo al mio avversario di percepire cedimenti.
Mi sporgo un po’ dal cespuglio trattenendo il respiro. La panchina è ancora vuota. Guardo l’orologio: mancano tre minuti alle 19. Mi devo calmare. Le gambe sono intirizzite e non so cosa darei per poterle sgranchire un pochino. Ormai ci siamo e non posso permettermi errori, perciò mi sforzo di restare immobile. Stai calma, Costanza.
Una sagoma nera si avvicina dal sentiero maggiore. Quasi non respiro più, per non emettere nuvole di fiato caldo. So che è lui, perché come da istruzioni imbocca il sentierino più piccolo e buio che conduce alla panchina e io lo immagino mentre passa dietro il cespuglio in cui mi sono acquattata. Sapevo che avrebbe obbedito alla mia lettera, che diceva così:
Caro sig. Massari, lei non mi conosce e non mi conoscerà mai. Io invece so diverse cosette su di lei. Ad esempio so che sta cercando contatti con le vecchie mamme dei suoi compagni di scuola. Sta forse organizzando una rimpatriata? Scherzo. So esattamente cosa sta facendo. Dispongo anche di diversi video di lei e dei suoi approcci. Alla presente allego la stampa di una foto che mostra lei in azione, come prova.
Lunedì 5 alle 19 precise dovrà presentarsi al parco della Cittadella, SOLO e con in tasca 2.000 euro. Non ho molti dubbi che quella cifra sia nella sua piena disponibilità, considerando le sue recenti “rimpatriate”. Andrà a sedersi sulla panchina mostrata nella mappa allegata. Attenderà il mio arrivo senza mai voltarsi e mi consegnerà il denaro. SENZA MAI VOLTARSI, mi raccomando. Sarò armata e non le conviene fare scherzi.
Con affetto,
Sekhmet
Vedo la sagoma nera che si siede sulla panchina. Attendo un minuto per farmi coraggio, poi vado. Le gambe quasi non mi reggono, per la glaciale immobilità che le ha pervase nelle ultime due ore o, con più probabilità, per la paura che le fa vacillare. Un passo incerto dopo l’altro mi avvicino alla schiena dell’uomo. Subito mi arriva una strana sensazione, una radiazione di pericolo. È normale, mi dico, devo attenermi al mio piano e tutto andrà bene.
«Buonasera signor Massari. Non si volti, faccia come le dico e tutto andrà bene. Conviene che le dica subito due cose: primo, in questo momento la canna di una pistola sta puntando sull’area occipitale del suo cranio, e secondo, a cose fatte io dovrò potermi allontanare indisturbata e non vista, altrimenti ci saranno altre conseguenze molto spiacevoli per lei, oltre a una pallottola piantata da qualche parte: i video di cui le facevo cenno nella lettera sono in mano a una persona di mia fiducia, che provvederà a farli recapitare alle persone giuste se mai dovesse accadermi qualcosa. È chiaro?» Questo discorsetto che mi sono preparata contiene delle bugie, che se ben dette, però, mi assicurano l’incolumità. Sono soddisfatta della convinzione con cui mi sono uscite e quindi inizio per quanto possibile a rilassarmi un pochino, soprattutto dopo che lui muove la testa per annuire.
«Se tutto questo le è chiaro, mi dia quello che sa e chiudiamola velocemente.»
Lui esita, ma poi fa quello che chiedo. Da sopra una spalla mi passa la busta dei soldi, che controllo rapidamente.
«Molto bene, signor Massari. Ho un’ulteriore richiesta per lei. Lasci stare per sempre le vecchiette. La terrò d’occhio e se lei dovesse continuare con i suoi misfatti, le assicuro che una copia dei video finirà nella casella di posta della Questura di Ancona. Basta un click, signor Massari. Mi faccia cenno che ha capito bene.»
Di nuovo, annuisce.
È quasi fatta, devo solo assicurarmi un commiato sicuro, per cui ritengo che sia meglio rincarare la dose affinché l’uomo non abbia tentazioni sconsiderate.
«So di lei molte più cose di quanto creda, sa? So che fa l’operaio edile per la Edildem e che divide un piccolo appartamento con un suo collega che si chiama Patrizio Esposito, o almeno così sta scritto sul vostro citofono. So che è di Foggia e che un fine settimana sì e uno no torna dalle sue parti. Questo venerdì è di partenza. So che è un habitué delle macchinette mangiasoldi e questo è davvero deplorevole, signor Massari, rubare alle signore anziane per andare a buttare soldi in questo modo. Come può constatare, sono stata il suo angelo custode per un po’, senza che lei si sia accorto di nulla. Continuerò a controllarla, per assicurarmi che si tolga il vizio. I video li conserverò per assicurarmi che righi dritto d’ora in poi.»
Fa sì con la testa senza che gliel’abbia chiesto. Di nuovo mi arriva la sensazione di pericolo di poco fa. Osservo meglio la sua nuca e mi si stringono le budella. Ha una zazzera molto più lunga di quella che ricordavo. Allora capisco. Ma è troppo tardi per tornare indietro. Cerco di mantenere il sangue freddo. «Signor Esposito!» esclamo, sapendo di andare un po’ alla cieca ma non troppo.
L’uomo davanti a me sobbalza. Ci ho preso. Brava. E adesso? Massari può essere ovunque, magari dietro di me e se così è, vede benissimo che non ho un’arma in mano. Davvero sciocca, a non aver previsto questa eventualità, proprio io che penso sempre a tutto! Ho la riprova, semmai ce ne sia bisogno, che a immaginare l’ipotesi più remota e peggiore ci si becca sempre, mannaggia a me!
«Se il suo coinquilino è appostato, gli dica di venire fuori e di venirsi a sedere accanto a lei, senza guardarmi. Ora le mostro una cosa che la convincerà a fare quello che le dico. Solo un minuto.» Estraggo il mio cellulare ed entro nella app di posta elettronica. Apro una bozza, con l’indirizzo della Polizia di stato nella riga del destinatario e sekhmet-vendetta@gmail.com nel mittente. Nel testo, il link per il trasferimento di file di grosse dimensioni. Gli allungo davanti il cellulare perché veda coi suoi occhi.
«Come può vedere, non è un bluff il mio, mi basta davvero un click. Una mia amica, lontano da qui, ha accesso alla stessa casella e in qualunque momento può inviare quella che per il momento è solo una mail in bozza, se non potessi farlo io. Un solo capello torto sul mio scalpo e parte il click, stia certo.» Ritengo di essere stata convincente. Però il terrore mi pervade da capo a piedi. Mi sono cacciata in un bel casino e non è scontato uscirne bene. Nel buio intorno o dietro di me ci può essere quell’individuo disgustoso e senza scrupoli, che non posso sapere fino a che punto è disposto ad arrivare pur di togliersi il problema che io rappresento.
Mi tiro la sciarpa fin sulla testa e la uso per cingere buona parte del viso. «Ora faccia sapere al suo amico che deve uscire e venirsi a sedere anche lui. Deve passare tenendo lo sguardo basso, senza guardarmi mai. Lo chiami, lo messaggi, qualunque sia la via di comunicazione che avete concordato, gli faccia sapere quello che voglio da lui. Ok?»
«Credo che abbia sentito.» risponde Esposito. E poi, a voce più alta: «Pè, esci, questa qui ce l’ha davvero i video, a quanto pare.»
«Ok.» dice Massari scivolando come un gatto a meno di cinque metri da me, fino ad arrivare a sedersi sulla panchina. «Ma noi li vogliamo anche vedere, questi famosi video, no Patrì?» continua, rivolgendosi al compare.
«E direi proprio di sì, Pè.»
Il loro tono scherzoso mi destabilizza e abbatte le già deboli certezze che ho. Tuttavia mi impongo di mantenere i nervi saldi. Non che non mi renda conto della mia posizione di debolezza, ma traggo convinzione dal non avere alternative, giunta a quel punto. Un’equilibrista che mette un piede dopo l’altro, ecco. In fin dei conti stanno tutti e due lì, seduti sulla panchina, invece di saltarmi addosso e gonfiarmi di botte. La mia salvezza dipende dal fargli credere che ho un’amica da qualche parte pronta a fare il passo successivo. Non possono sapere che nella realtà sono sola come una cagna.
Ancora qualche digitazione sul touchscreen e faccio partire uno dei video. Poi allungo il braccio tra le teste dei due e attendo che prendano visione.
«Questo è un assaggio. Come potete vedere, mostra in modo inequivocabile lei, signor Massari, perfettamente riconoscibile, mentre accompagna per strada una signora, fino al suo portone.» continuo, come un commerciante che illustra le qualità della sua mercanzia. Ritiro la mano. «Ne ho una montagna di video così. Nel successivo video si vede sempre lei, che esce da quel portone in fretta e sale sulla sua auto, di cui c’è una magnifica inquadratura della targa. D’altra parte, è così che sono risalita a lei e ho potuto lasciare la mia letterina nella sua cassetta della posta. So per certo che alcune anziane signore truffate hanno sporto denuncia,» mento di nuovo, «e ho pochi dubbi sulla loro capacità di riconoscerla vedendola in questi filmati.»
«C’è il problema di tutti i ricatti, signorina.» interviene Esposito più serio di prima. «Chi ci garantisce che ora che ha i soldi non tornerà a usare i video? Se la lasciamo andare, invece di darle tutte le mazzate che si merita, che garanzie abbiamo?»
«Come in tutti i ricatti, avete la parola di chi ricatta.» replico.
«Che però,» intervenne Massari, «noi sappiamo già essere una grandissima bugiarda, vero, pistolera dei miei stivali?»
«Mi sa che non ci possiamo fidare, Pè.»
«Mi sa anche a me, Patrì.»
«Non è che avete molta scelta. La mail pronta a partire ve l’ho fatta vedere, così come i filmati compromettenti. È galera assicurata.» Incredibilmente, mi ascolto parlare come se avessi il coltello dalla parte del manico. Ma ce l’ho?
Cala il silenzio. Credo che stiano decidendo il da farsi, ognuno ragionando tra sé e sé, ma nell’impossibilità di parlarsi e concordare le mosse successive. Per me è subito chiaro, che se non approfitto al volo di questa loro titubanza, un’altra occasione non l’avrò. Osservo l’orizzonte dietro le ombre nere degli alberi, che non riescono a occultare completamente il profilo costellato di mille lucine della città che scende verso il mare. Quanto vorrei proiettarmi fuori da questo buio e da questo pericolo!
Che fare? Devo fidarmi più della mia capacità di irretire con le parole o delle mie gambe? Non ho tempo per una valutazione ponderata. Seguo l’istinto. Mi metto a correre.
Mi scapicollo giù per il breve sentiero che sfocia sul percorso più ampio del parco, e poi a sinistra, verso l’uscita. A quest’ora potrei trovare qualcuno che si è attardato facendo jogging, oppure il custode che tra non molto dovrà chiudere le porte della Cittadella, ma non ci posso contare troppo. Mi stanno inseguendo, li sento. Sento anche le loro voci che si incitano a vicenda. Se mi prendono sono morta. Sicuro! Corri Costanza, corri! Capisco senza voltarmi che il vantaggio dell’effetto sorpresa si ridurrà rapidamente e per un tratto la corsa sarà in salita. So che non la scamperò. Allora, appena dietro una curva del sentiero, mi getto alla cieca in un recesso buio tra gli arbusti di caprifoglio e trattengo il respiro. Ancora una volta, una scelta istintiva che mi potrebbe costare cara. Me ne rendo conto solo dopo averlo fatto. Se mi hanno vista o se sentono il mio respiro affannoso da dietro i rami, sono spacciata e mi sarò messa in trappola da sola.
Sono caduta malamente strusciando con la faccia su una serie di rametti maldisposti e solo dopo qualche secondo inizio a sentire la pelle graffiata e bruciante vicino a un occhio. Il fiatone che non riesco a silenziare mi sembra rumorosissimo. Pochi secondi, e arrivano i passi di corsa dei due uomini. Uno di loro fa all’altro: «Sbrighiamoci, prima che raggiunga la strada!» Trattengo il respiro e paralizzo tutti i muscoli. Se si lanciano verso l’uscita forse non perderanno tempo a perlustrare. Chiudo gli occhi, come quando ero bambina e pensavo che se io non potevo vedere papà che mi cercava, nemmeno lui poteva vedere me. Purtroppo lui mi trovava sempre. Riapro gli occhi per liberarmi del ricordo. Non è proprio il momento.
Conto mentalmente una decina di secondi, un tempo che mi sembra congruo per due uomini che corrono per raggiungere il portone della Cittadella. Poi esco dal nascondiglio e mi rimetto a correre nella direzione opposta, quella da cui sono venuta, su un percorso ai cui lati ci sono una quantità di passaggi bui tra gli alberi e gli arbusti di lentisco e alloro. Non c’è più nessuno nella parte più profonda e buia del parco. Devo velocemente trovare un rifugio, perché è escluso azzardarsi a varcare l’uscita, che di sicuro sarà presidiata dai due malviventi.
So dove mi sta portando questo sentiero. Gira ad anello intorno al parco per tornare all’ingresso. Il tutto, circondato da mura e reti che mi impediscono di uscire. Dopo una discesa, il sentiero risale. Passo un casottino in mezzo a un prato. È chiuso di sicuro, inutile perdere tempo a verificare, rischio che i due mi raggiungano se, come immagino, decideranno di tornare indietro e perlustrare. Purtroppo le mura della Cittadella definiscono un luogo chiuso, studiato apposta perché il nemico non possa entrare. Uscire è altrettanto impossibile e io non conosco questo posto abbastanza da sapere se ci sono altre vie. Ci sono storie che circolano sull’esistenza da qualche parte di un varco nascosto per passare dal parco all’area un tempo riservata agli alloggi militari, in seguito adibiti a maneggio. Un tizio che avevo preso a frequentare un paio d’anni fa, un anconetano poco raccomandabile, mi ci voleva portare. Diceva che tutti gli anconetani doc, da ragazzi, hanno affrontato la sfida: infilarsi in un buco della recinzione e giungere, non so bene come, a un muro a cui sono fissate due corde, una che permette di scalarlo e l’altra di calarsi giù dall’altro lato, all’interno del maneggio. Io non mi sono fidata, di quel tizio, perché la sua aura all’inizio era buona ma poi è cambiata, è diventata cattiva, però secondo me la sua storia sul passaggio nascosto tra parco e maneggio era vera. Solo, vallo a trovare in mezzo a questo buio!
Risalgo sempre di corsa verso una zona più illuminata e sto disperando di trovare un nascondiglio sicuro, finché alla mia destra si apre un prato in fondo al quale c’è una specie di grossa cabina in metallo. Giunta lì davanti, un cartello mi informa di cosa si tratta: è la stazione di monitoraggio della qualità dell’aria. La porta è chiusa a chiave, ovvio. Giro tutto intorno e dietro, nascosto dalla vegetazione, trovo un tubo che sale verso la tettoia da cui spuntano antenne e sensori vari.
Se continuo a vagare per il parco, prima o poi mi trovano. Se fossi in loro, lo farei un tentativo di ricognizione prima della chiusura e io ho appreso dalla vita che è bene aspettarsi sempre l’opzione peggiore, in modo da essere preparata. Provo a inerpicarmi su per il tubo, aiutandomi anche con i rami degli arbusti che offrono un appoggio per i piedi. In fondo devo raggiungere la tettoia di questa specie di container, che è alta due metri e mezzo o poco più. Ce la posso fare.
Ce la faccio. Mi appiattisco sul tetto e riprendo fiato. Dall’interno viene un ronzio continuo delle apparecchiature in funzione. Bene: servirà a nascondere il rumore del mio affanno. Sono accaldata per la corsa, ma non ci vorrà molto, prima di ricominciare a sentire il freddo. Inizio a pensare che forse dovrò affrontare tutta la nottata qui. È da matti, ma l’alternativa di provare ad avventurarmi fuori dalla Cittadella mi spaventa ancora di più.
Passano circa dieci minuti e poi sento dei passi affrettati sulla terra battuta del sentiero. Dalla mia postazione cerco di sbirciare sollevando appena la testa e restando nascosta da un grosso tubo. Vedo il Massari da solo che con un bastone colpisce la vegetazione ai lati del sentiero, a destra e a sinistra, pensando di scovarmi. Il suo compare deve essere rimasto di guardia all’ingresso. Lo so, perché io avrei fatto così. Massari viene verso la stazione di monitoraggio. Mi abbasso più possibile. Al di sopra del ronzio dei macchinari, avverto a mala pena i fruscii dell’erba attraversata dalle sue scarpe, che mi informano sui suoi movimenti su un lato e poi dietro il container. Sta picchiando col bastone in mezzo ai rami.
I fruscii si allontanano. Con una guancia appiattita al tetto osservo le nuvole di fiato caldo che escono dalla mia bocca per poi rarefarsi e sparire. Accanto a me, un anemometro ruota fiacco. Prevedendo un ulteriore abbassamento della temperatura, so che non resisterò a lungo e se proprio devo morire assiderata, tanto vale tentare la sorte. Scivolo giù dalla stazione metereologica. Lascio passare qualche secondo ferma e in ascolto, poi mi avvicino al limitare del prato, che alla mia sinistra scende ripido. In fondo, una cancellata oltre la quale c’è il maneggio della Cittadella.
Il maneggio potrebbe essere una buona via di fuga, ammesso che sia ancora aperto. Guardo l’orario sul mio cellulare. Sono quasi le otto e mezza di sera, ma se sono fortunata, anche se le attività del maneggio sono cessate, potrebbe essere rimasto qualcuno a prendersi cura dei cavalli. Tanto vale tentare, perché altre opzioni, oltre a quella di restare prigioniera delle mura della Cittadella per tutta la notte ed essere rinvenuta cadavere domattina, non mi sovvengono.
Mi avvio quatta quatta giù per il dirupo erboso e arrivo alla cancellata. Non ci sono lampioni qui e sono protetta dalla semioscurità. La cancellata è alta, tanto alta per me, e con sbarre lisce, nessun appoggio per i piedi e spuntoni in cima. Con le mie braccia intirizzite so che non ce la farò mai. Ai lati, una rete che culmina col filo spinato. Provo a infilarmi tra le due ante del cancello, collegate tra loro da un catenaccio. Io sono molto magra, ma dovrei essere almeno la metà per riuscire a passarci. Al di là delle sbarre di metallo non vedo anima viva e nemmeno luci accese. Non posso provare a chiamare qualcuno che mi venga ad aprire, perché verrei sentita dai maledetti che mi stanno cercando.
Credo di non avere altre possibilità che cercare il passaggio segreto di cui ho sentito parlare, sperando che quel tizio non mi abbia raccontato una frottola. Per farlo dovrei tornare sul sentiero del parco che ho abbandonato poco fa e sperare di non incappare nel Massari e il suo complice. Sento la temperatura del corpo scendere velocemente e questo contribuisce a farmi fare scelte imprudenti. Risalgo alla stazione metereologica e inizio a costeggiare la recinzione di separazione dal maneggio, che per la maggior parte è coperta dalla vegetazione. Prima o poi dovrò pur trovare qualcosa. Dopo qualche centinaio di metri c’è uno spazio di vegetazione diradata ed eccolo lì, il buco. La rete metallica ha le maglie tagliate a mezzo metro da terra, i monconi ripiegati. Mi infilo senza esitare e mi ritrovo in una sorta di corridoio tra due reti, reso impervio da vegetazione spontanea alta e a tratti spinosa. Alla mia sinistra la seconda recinzione lascia intravedere gli edifici che dovrebbero essere le stalle. Fatico a procedere senza graffiarmi ma arrivo al muro. È proprio come mi era stato detto: c’è una corda che scende dalla cima. Il muro è leggermente inclinato, come è logico per una fortificazione, il che dovrebbe un po’ facilitare la salita. Distinguo poco, nel buio, ma ci provo. Giunta a questo punto sono stremata di stanchezza, paura e freddo, ma la speranza ridona forza ai muscoli delle braccia. Inizio a salire, puntando i piedi sul muro. È durissima e a più riprese penso di non farcela, ma non mollo. Io sono Costanza.
Con i bicipiti che sembrano lì lì per spezzarsi e le dita indurite dal dolore, scivolando o mettendo male i piedi sulle irregolarità del muro, riesco ad arrivare in cima. Prendo fiato, allungandomi sulla schiena per essere sicura di non essere scorta dal basso. Poi con una seconda corda messa apposta per calarsi dall’altra parte della rete, scendo nello spazio del maneggio, dove finalmente inizio a sentirmi al sicuro. Ora si tratta di uscire di qui. Il fatto che le luci siano spente mi porta a pensare che se ne sono andati tutti ed è probabile che anche l’accesso sia chiuso, ipotesi che trova conferma quasi subito. Il cancello sotto l’arco nelle mura è impossibile da oltrepassare. Un rapido giro di perlustrazione mi mostra che lo spazio del maneggio è delimitato tanto quanto lo era il parco. La mia condizione tuttavia è migliorata: sono ancora prigioniera delle mura della Cittadella, ma qui sono piuttosto certa che i miei inseguitori non mi troveranno.
Rassegnata a passare il resto della notte in questo luogo, esploro alla ricerca di un angolino che mi permetta di stare al caldo. I vari caseggiati hanno tutte le porte chiuse a chiave. Se proprio dovessi vedermela brutta, potrei spaccare un vetro per entrare a ripararmi. La fortuna però è dalla mia parte, come d’altronde accade spesso: una delle porte della stalla si apre dall’esterno con un semplice chiavistello. Dentro è subito più caldo. Sei proprio tanto fortunata, Costanza. Una volta trovato l’interruttore della luce, trovo anche una montagna di cose che mi aiuteranno a passare la notte come una regina: paglia su cui dormire, coperte in un armadio della selleria, un rubinetto per l’acqua, un sacco pieno di pane secco e un altro pieno di mele. E dei meravigliosi cavalli a farmi compagnia.
Attraversata da un’adrenalina vittoriosa e consapevole di averla scampata per un soffio, fatico un po’ ad addormentarmi. Piano piano però mi lascio andare a un sonno profondo e senza sogni.
Il mattino seguente sono sveglia prima dell’arrivo del personale del maneggio. Quando li sento, resto nascosta, appiattita a una parete posteriore della stalla e quando entrano per dare il buongiorno ai loro cavalli, non è difficile riuscire a filarmela senza che mi vedano.
La prima cosa che faccio, appena rientrata a casa, è controllare la dispensa, dove è importante che tutte le cose siano a posto. Poi mi siedo in cucina e faccio quello che va fatto: invio la mail alla polizia. Avevano ragione, i due, a non fidarsi di me. Più tardi, con calma, restituirò alla signora Buratti i suoi 850 euro, chiedendole in cambio di non farmi domande su come li ho recuperati. Poi troverò un modo per risarcire anche l’altra signora. Se avanzerà qualcosa, sarà per me. Me lo merito, no?
Costanza e la norma
Sarà pure una psicologa questa qui, ma non mi pare una gran cima. Strano, l’altra volta mi ha fatto un’impressione diversa. Ora mi sorride e già ho la sensazione di non potermi fidare più. Stai attenta, Costanza. C’è come una luce, nei suoi occhi, come di una che ha aspettative. Vuole qualcosa da me. Lo sento, non è qui solo per ascoltare, vuole ottenere. Si vede che è curiosa di sapere come mi sono procurata i graffi sul viso, ma non chiede. Invece mi chiede se ho compilato il questionario che mi ha dato la settimana scorsa. Forse si riferisce a quell’insulso fascicoletto di domande che ho buttato nella spazzatura appena arrivata a casa. Le piacciono le scorciatoie, ma non sa, lei, che le scorciatoie sono pericolose? Non l’ha letto, Cappuccetto rosso, dottoressa? Attende la mia risposta, che dovrebbe essere ovvia, se sapesse fare il suo lavoro. Non perderò tempo con le sue sciocche scorciatoie e le sue inutili domande.
Tutto sommato ha un’aria simpatica, però. Deve essere questo che mi ha tratto in inganno fin dalla prima volta. Occhi esperti, che sembrano voler conservare testardamente uno sguardo benevolo sul mondo nonostante tutto, protetti dalle lenti tonde degli occhialini. Una sessantina d’anni, più o meno. Più più che meno. E denti un po’ anneriti. Quanti caffè e quante sigarette, per tirare avanti? Non sei perfetta neanche tu, dottoressa. Ne deve sentire tante, da dietro quella scrivania. Ma forse no. Nessuna storia è come la mia. Perfino i mostri là fuori si spaventerebbero, se sentissero. L’inferno non può essere così frequente, credo. Agli altri non succede come a me, ne sono sicura, perché altrimenti la terra sarebbe popolata da zombi.
La dottoressa Mazzacurati mi fa pensare che non è poi tanto disinteressata come mi era sembrata in un primo momento. Forse le altre volte mi sono lasciata un po’ andare, dicendo troppo. Cosa le avrò raccontato? Nemmeno me lo ricordo. Forse le ho detto qualcosa di quel criminale del mio vicino e di quel criminale di Massari e forse anche qualcosa di Azzurra e di Giuda. D’altra parte, avrò pensato, di qualcuno mi devo fidare per riprendermi Azzurra. Da sola non ce la farò mai. A volte mi sembra di spaccare le montagne e ottenere tutto. Adesso invece mi sembra di no. Credo di non averle detto cose troppo compromettenti, ma non posso esserne così certa. Stai calma, Costanza, rilassati e fai attenzione alle cose che fai uscire di bocca.
Vuole qualcosa da me, la dottoressa, e io ho paura. Ogni volta che qualcuno ha voluto qualcosa da me è finita male. Soprattutto se gliel’ho dato, quel qualcosa. Di nuovo penso a Giuda, che non mi lascia in pace. Il Giuda maledetto. È per colpa sua che ho perso Azzurra. Non hai altre strade, Costanza, che affidarti alla dottoressa Gabriella Mazzacurati. Non parla ora. Mi ha fatto una domanda, che non ricordo più. Aspetta una risposta, ma io non so la domanda e non ho voglia, non ho voglia, sento le energie che mi abbandonano. Mi importa solo di Azzurra ora e mi sento come sotto un sudario nero che pesa addosso come terra. Voglio rivederla, riabbracciarla. Ho bisogno di lei. Glielo dico, alla dottoressa, anche se questa non è la risposta alla sua domanda.
Mi guardo per un po’ il tatuaggio sul braccio sinistro. Un cuore circondato da fiori, con all’interno la scritta 21 1 2013. La data di nascita della mia bambina.
«Sto male.» dico. Ed è vero. Quando penso ad Azzurra mi viene la nausea e mi sembra che tutto il dolore possa da un momento all’altro essere vomitato dalle viscere in modo violento.
Piango. La dottoressa non dice nulla per consolarmi. Questo mi piace. La dottoressa del Consultorio, invece, quando piango, cerca di dire parole di conforto, dai non fare così, vedrai che andrà tutto bene, e via di seguito con il rosario di rassicurazioni che non mi servono, perché è inutile che mi consoli e poi non mi fai vedere Azzurra. La Mazzacurati invece rimane in silenzio. Forse sa che ogni parola sbagliata può diventare un altro macigno per me. Resta il fatto che vuole qualcosa e questo invece non mi piace. Non l’ho fatto lo stupido questionario. Al Centro di salute mentale ne ho già fatti altri, di test, e sono stati usati per togliermi Azzurra. La rabbia mi asciuga le lacrime. Ora ardo. E tremo. Non è giusto. Ma stai calma, Costanza, o te la faranno pagare ancora più cara. Cosa possono arrivare a fare di peggio?
«Vogliamo parlare della decisione del Tribunale per i Minorenni?» mi chiede.
Come fa a saperlo? Gliel’hanno detto loro. Oppure sono io che gliel’ho detto. Scema! Sono venuta qui pensando di trovare una persona che potesse rendermi giustizia e subito ho vuotato il sacco. E nemmeno mi ricordo tutto quello che le ho raccontato! Mi detesto quando mi butto nelle situazioni, do tutta me stessa e poi mi ritrovo fregata. Ancora non mi vuole entrare in testa che è facendo così che finisco nei guai. Sempre.
La Mazzacurati deve aver intuito che ne ho tante di cose da dire, ma non voglio. Come posso, dopo tutto il male che mi avete fatto? Mi rispiega una cosa che mi ha detto un po’ di volte fa, che lei non ha un ruolo di valutazione su di me, ma è la mia psicoterapeuta, quindi quello che dirò a lei è coperto dal segreto professionale. So che me lo dice come incoraggiamento ad aprirmi. Deve proprio pensare che sono un’ingenua. O forse ci spera. Sarà anche come dice lei, ma non posso rischiare. Chi l’ha stabilito, che devo fare un percorso di psicoterapia, altrimenti non potrò riavere mia figlia? Il giudice. E chi mi ha indirizzato verso questa psicologa? L’assistente sociale. Siete tutti alleati, collegati tra di voi, mi lavorate alle spalle, pensate davvero che non arrivo a capirlo?
Sulle sue lenti tonde, se si guarda bene, ci sono delle impronte digitali. Stamattina non li ha puliti, gli occhiali. Ha un’aria un po’ buffa, un po’ sgranata, la dottoressa. Mi viene da dire: meno male. Perché in questo momento non riuscirei a reggere il confronto con una donna tutta perfettina e con tutte le sue cosine a posto. Io ci provo a rimettere le mie cosine a posto, questa in questo cassetto e quest’altra in quest’altro cassetto. Ma poi non ritrovo nulla dove l’avevo lasciato. Come fosse passato un ladro, uno come il Massari, a ribaltarmi il comò. Ho anche provato a spiegarlo all’altra, quella del Consultorio, quella con lo smalto sulle unghie, perché io sono così, sono buona, sono sincera, mi sono offerta su un vassoio e zac! Fregata. Inadeguatezza genitoriale, dicono.
Io non so più come mi devo regolare. Se dico la verità non va bene, è inadeguatezza. Se non dico niente, è oppositiva, è inadeguatezza. Se provo a raccontare che va tutto bene, non è sintonizzata sulle emozioni, è inadeguatezza.
Esco di qui che ancora una volta non so cosa ho detto e cosa ho solo pensato. È pericoloso, Costanza, è pericoloso così. La sola cosa che mi fa piacere è che la psicologa, salutandomi, non cerca di farmi credere che andrà tutto bene. Di questa falsità posso fare a meno.
Sono debole, sono fragile, sono sola. Ma non sono stupida.
Stanotte mi sono rigirata nel letto, o meglio erano le mie gambe senza riposo a trascinarmi continuamente di qua e di là. Penso e ripenso alla mia situazione. Eppure una via d’uscita deve esserci. Se trovo soluzioni per gli altri, le posso trovare anche per me, no? Io sono Costanza e non mi do per vinta.
Mi alzo alle cinque, come sempre da quando ho il nuovo impiego, e sono così prosciugata che mi sembra di avere la sabbia in bocca e le gambe distrutte come al termine di una traversata nel deserto. Non so perché mi sento così delle volte, magari anche dopo un successo clamoroso, come l’essere riuscita a farla franca coi ladri delle vecchiette. Dovrei sentirmi bene, no? E invece non ho nemmeno voglia di prepararmi il caffelatte, non ho la forza, anche se mi aiuterebbe a riprendermi e a ripulire la bocca impastata. È come se ogni sforzo fosse inutile, benché stanotte abbia avuto degli sprazzi di speranza e delle idee per affrontare la cosa, adesso mi sembra che sia tutto senza sbocco. Vado al lavoro portandomi dietro tutto il mio malessere fisico, senza fare nulla per alleviarlo, in fondo me lo merito.
Oggi fanno quattro mesi che Azzurra non sta con me. Deve essere questo il macigno che mi pesa. Il dolore ha la forma di un punteruolo freddo che fende lento e poi ruota. Come stai Azzurrina? Ti ricordi della tua mamma? Mangi? Ti fanno le polpette come piacciono a te, con tanto Parmigiano? Devo non pensarci, fa troppo male. Non piangere Azzurra, mamma ti riporterà a casa prima possibile, ma ora deve smettere di pensarti, perché fa troppo male.
Ho finito di pulire tre uffici e anche il bagno brilla. Sono le 7.30 e mi rendo conto che soprappensiero e con un freddo ospite metallico nel petto, ho fatto in automatico la maggior parte del lavoro. Efficiente a mia insaputa e senza sforzo della volontà. Mi manca un ufficio e il laboratorio, che è la stanza più grande, ma lì dentro vado veloce perché mi hanno detto che non devo toccare i macchinari, i computer e le diavolerie volanti posti sui due lunghi tavoli. Una spolverata all’ufficio, una spazzata, una passata di mocio e ho finito. Proprio in tempo, prima dell’apertura degli uffici, alle 8. Veramente il capo arriva sempre prima. Il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Però la sua stanza la faccio sempre all’inizio e con più cura. Se n’è accorto, della cura che ci metto, infatti mi sorride sempre in modo speciale, al mattino.
All’inizio cercavo di fare tutto bene perché lui è il tutor che poi riferisce al servizio sociale e sapevo di dover fare attenzione. Adesso faccio tutto bene perché lui mi guarda col sorriso, come se non fossi un mostro. Glielo farà capire, a quelle due galline, che io sono perbene, una che si dà da fare, mica come loro, buone solo a pontificare e riempire scartoffie! Paolo è un brav’uomo. Ci siamo subito sentiti in sintonia, so che mi capisce. Naturalmente conosce il guaio in cui mi trovo, ma mi tratta comunque come una persona. Ecco quello che non riescono a capire le galline. Che sono una p-e-r-s-o-n-a.
Ripenso allo sguardo di quell’assistente sociale, la Carloni, apparentemente indulgente, ma spietato quando non dico le cose che vuole lei. C’è una sorta di sollievo, in quello sguardo, come a dire: bene, è proprio irrecuperabile come avevo pensato fin dall’inizio; meglio così, è meno lavoro per me. E già, perché lavorare per riportare Azzurra a casa è una grana che non vuole. Meno faticoso lasciarla dov’è, in quella comunità lager, con degli educatori a fare da genitori, tutte personcine ammodo che rientrano nello standard ipocrita che ha nella sua testa bacata. Molto meno stress per la testa bacata. Stronza.
La rabbia mi fa fare un gesto un po’ scomposto con lo straccio per spolverare e faccio volare per terra un mouse. Mi devo calmare. Dovrei smettere di rimuginare sempre. Dovrei fare come dice la psicologa del Consultorio, devo pensare meno, altrimenti il mio cervello gira a vuoto, dice, e alimento la mia rabbia, dice. Stop dei pensieri, dice. E brava. Ma mi vuoi anche dire come si fa, stronza? Mi avete separato da mia figlia da quattro mesi e io non devo pensare. Bel consiglio del cavolo.
«Che fai, non lo raccogli?»
Non ho bisogno di voltarmi per sapere che alle mie spalle c’è l’ultima persona che vorrei avere alle spalle. Caterina. Unico merito: avere una parte del DNA in comune con Paolo, essendone la sorella. Razza di vipera, certo che lo raccolgo. Ho mai lasciato qualcosa fuori posto, stronza? Che c’è, non basta che io lo raccolga, devo anche essere superveloce, per battere sul tempo la tua lingua biforcuta? Sei della stessa pasta della Carloni, sempre pronta a puntare il dito, perché avete bisogno di questo, voi misere, di puntare il dito per potervi ergere a esseri superiori, a donne capaci, a brave mamme. A donne che fanno tutto e fanno tutto perfetto. Com’è che si dice? Multitasking. Un cavolo. Siete delle merde. Eccolo il tuo mouse, eccolo qui. Contenta?
Lo sbatto sulla scrivania della vipera. Un po’ forte, questo sì, però i pensieri sono riuscita a tenerli per me. Credo di non aver tradotto in parole la furia che mi ha attraversato la mente. Credo.
Vado in corridoio. Qui ho finito. Chissà perché Caterina è arrivata prima, oggi. Dunque, sono le 7.50 ed è insolito per una fannullona come lei. Un’altra che viene a controllarmi. Io nemmeno la conosco, giusto buongiorno e buonasera. Anzi solo buongiorno, ché la sera io non sto certo qua. E si permette di venirmi a controllare. Sono quasi sicura che i servizi sociali hanno delle spie, forse si sono accorti che Paolo è dalla mia parte e non si fidano più di lui. Ed ecco che arruolano sua sorella per sorvegliarmi. Hanno bisogno di prendermi in castagna. Davvero non ci si può più fidare di nessuno.
C’è Paolo in corridoio e mi sorride. «Tutto bene?»
Devo avere il viso tirato, non penso di riuscire a mascherare con lui. Lo vede che sono sconvolta. Ma non per quella lì, di cui non mi frega niente. È per Azzurra. È sempre e solo per lei. Io sto qui a fare le pulizie, come reinserimento, dicono, anche se io ho sempre lavorato, mica mi sono mai fatta mantenere. Devo sottostare a questo, devo fare la brava, devo farmi rivoltare come un calzino, essere osservata da tutti i lati e confrontata con la media, la mediana e la norma. La scorsa settimana sono andata in biblioteca e ho trovato un manuale del MMPI per capire in che modo avrebbero valutato le mie risposte a quel test per fuori-di-testa. Sono rabbrividita a vedere tutti quei numeri. Se non ricadi tra un minimo e un massimo, se ti allontansi troppo dalla media, sei spacciata. Ma non io. Io lotterò fino alla fine. Io sono Costanza. E sono fuori dalla norma. È dura, soprattutto quando, come oggi, ti rinfacciano piccole cose, come un mouse caduto a terra. Cose piccole, mi stanno a valutare, mentre io muoio di dolore perché non ho più la mia bambina.
«Tutto bene» rispondo. Non so se è vero o no. In fondo è vero, mi dico, perché non possiamo stare a fare una tragedia per un mouse.
«Vieni, parliamo un attimo.» Mi fa cenno di seguirlo nel suo ufficio. «Costanza, tutto bene?» mi ripete.
Stavolta un semplice “tutto bene” non verrebbe accettato come risposta. E no, non va affatto tutto bene. Mi viene da piangere. Possibile che nessuno mi capisca? «Io faccio del mio meglio, Paolo, lo sai. Mi faccio in quattro. Ma non ce la posso fare se ho tutti contro di me. Io sono forte, ma tutti contro è disumano! Cos’ho fatto di male, perché tutti ce l’hanno con me? Cosa ho fatto per meritare questa punizione? Cos’ha fatto Azzurra per meritare questa punizione? Perché ci volete schiacciare?»
«Uoh uoh uoh» fa lui, cercando di arginare coi palmi delle mani. «Frena, Costy. Adesso non vedere tutto nero, tutti contro…» Gli trema un po’ la voce, come se volesse fare lo spigliato, ma in realtà non sapesse bene come affrontare la cosa.
Lo so, le mie emozioni a volte spiazzano, l’ho constatato tante volte. Mi sento in colpa verso di lui. È un uomo giovane e prestante, che fa subito pensare a uno sportivo, tanto nelle movenze ginniche quanto nella lealtà dello sguardo. È il titolare della Blackwing, una start-up, una roba d’avanguardia ingegneristica. Mi hanno “reinserito” nella sua azienda, perché lui lo vedi subito, è di quelli positivi, cresciuti coi valori dell’amicizia vera e dell’impegno sociale, come fossero componenti del suo DNA (la parte di DNA che non condivide con Caterina). Devono aver pensato che potesse magari contagiarmi con la sua visione cristallina e positiva del mondo. Invece è proprio il suo DNA lineare a renderlo sprovvisto davanti a me. Lo vedo nel tremore dei suoi occhi. Non è corazzato, non ha le armi per gestirmi, lo vedo e mi sento in colpa. Non si merita di essere trascinato giù, mentre io ci sono abituata a stare nel fango.
Subito dopo però mi viene ancora più rabbia. «Pensano di cancellare tutto con una borsa lavoro, come se dovessi imparare a stare al mondo. Ma non hanno capito a cosa sono sopravvissuta io? Io ho passato cose che avrebbero ammazzato dopo due secondi chi ora mi giudica!»
«Uoh, uoh» ripete. E io ho la conferma che non sa cosa fare con me. Gli sorrido come fosse mio figlio. Lo devo proteggere. Ritiro indietro la rabbia e lo sconforto. Respiro e sorrido. Va di nuovo tutto bene.