Rimasi perplessa, quando il giardiniere, che avevo assunto per risistemare il giardino abbandonato da una decina d’anni, mi mostrò quello che aveva trovato dissodando il terreno.Era una Barbie, tutta graffiata e sporca di fango, nuda e, quello che è peggio, orribilmente deturpata in viso. La testa era bucata e i capelli rovinati come se fossero stati bruciati. Non so perché, ma non pensai a qualcosa che una bambina aveva perduto e che il tempo e le intemperie avevano malridotto. Lo stato della bambola mi fece pensare piuttosto ad un intento preciso di distruzione dettato dall’odio.
Questa idea mi rimase per tutto il giorno e mi trasferì un senso di oscura minaccia, come si sperimenta quando si crede ad una maledizione voodoo o si percepisce un alone di malvagità intorno a sé. Cercai di ricacciare indietro queste sgradevoli sensazioni, dal momento che non erano proprio in linea col mio modo di vedere le cose.
Ero sola in quei giorni, nella casa in cui ero nata e in cui i miei erano rimasti a vivere finché mio padre non era morto e mia madre non era venuta a vivere con me in città per non restare completamente sola. Sulla soglia dei miei trentacinque anni, avevo deciso di risistemare quella casa, in cui progettavo di andare a vivere definitivamente negli anni della pensione, ma in cui intanto volevo tornare di quando in quando, a passare un fine settimana o le vacanze estive. Anche mamma sentiva sempre di più il bisogno della sua casa e, trovandosi ormai in una età in cui ci si guarda indietro più spesso di quanto si guardi in avanti e si comincia ad avvertire quel desiderio di nutrire la propria nostalgia piuttosto che accantonarla, approvò il mio progetto.
Mamma era andata da mia sorella per un po’ e con me c’era Tim, il mio Pinscher. I lavori stavano procedendo bene e il giardino non aveva più l’aspetto abbandonato di prima. Erano state estirpate le erbacce altissime e piantati nuovi arbusti fioriti. Erano invece state lasciate al loro posto le piante antiche: la vecchia magnolia, gli abeti e la palma, che dopo una potata avevano riconquistato un aspetto di bellezza, forza e rispettabilità, come hanno solitamente gli alberi che hanno attraversato generazioni e generazioni con pazienza e determinazione.
Era appunto ai piedi della palma che venne ritrovata la bambola. Dapprima la lasciai sopra un muretto. Tim si avvicinò, la annusò e guaendo se ne allontanò. Non mi fece piacere osservare la reazione del mio cane. A sera, decisi di portare la Barbie in casa, pensando che avrei potuto chiedere spiegazioni a mamma, semmai ne avesse saputo qualcosa. Mentre accendevo il fuoco, la bambola stava lì accanto, seduta sul piano del camino. Non volevo appoggiarla sul tavolo – mi sembrava poco igienico – e però le ombre del fuoco che ondeggiavano sui tratti deformati del suo viso mi riportarono più forte di prima quella sensazione di misterioso disagio. Anche se ero stata sempre razionale e scettica rispetto ai fenomeni paranormali, non ero esente dallo sperimentare dei timori irragionevoli, talvolta. Ma mentre altre volte prendevo quei pensieri e semplicemente li mettevo da parte, stavolta ero ostacolata dal fatto di essere sola, in una casa isolata, senza vere distrazioni e confermata sulla strada delle fantasie più inquietanti dalla reazione di Tim, a cui evidentemente il fiuto aveva suggerito sensazioni avversative del tutto simili alle mie. Per tutta la sera Tim aveva evitato di avvicinarsi alla bambola e appariva più avvilito del solito. Aveva uno sguardo malinconico e sofferente, la coda abbassata e una irrequietezza che quasi mai gli consentiva di stare a cuccia tranquillo come al solito.
Anch’io cercavo di evitare di guardare la Barbie. Era paradossalmente la parte più logica di me a pretendere di lasciarla lì, al suo posto sul camino, per sfidare paure immotivate e non cedere a credenze superstiziose.
Quella notte mi addormentai velocemente, ma il sonno venne presto disturbato da un incubo. Sognai il mio cane che allegro saltellava tutto intorno, prendeva a morsi alcuni fiori e io mi arrabbiavo con lui. Poi iniziò a scavare nel giardino rimesso a nuovo e questo mi mandò su tutte le furie. Gli strillai, mentre lui senza fermarsi dissotterrava una bambola identica a quella rinvenuta quel giorno. La teneva tra i denti, dapprima scodinzolante e orgoglioso della scoperta. A un certo punto lasciò cadere la bambola e guaì in modo straziante. Si accasciò, la lingua di fuori e improvvisamente immobile. Era morto. Urlai di dolore e di paura, mentre la Barbie prendeva vita, l’orribile buco in testa e i capelli che zigzagavano davanti al viso sudicio. I suoi occhi erano vivi e tremendi. Non sorrideva come qualunque Barbie. Nei suoi tratti sformati si leggeva odio e volontà di annientare.
Mi svegliai di soprassalto, quasi lanciando di lato le coperte, con una paura addosso mai provata prima e una frenesia che venisse presto giorno per mettermi in salvo lontano da lì.
La vocina che dentro di me mi suggeriva di stare calma, perché era solo un sogno, la misi frettolosamente a tacere. Dovevo sopravvivere a quella nottata infernale. Accesi tutte le luci e mi preparai un caffè. Avevo voglia di prendere la macchina e tornarmene a casa in città. Invece rimasi. Mi dissi che se avessi ceduto a questa tentazione, avrei davvero dimostrato una irragionevolezza superstiziosa e colpevole, da cui la mente non torna indietro.
Mi stavo accingendo ad affrontare la seconda metà della notte insonne, ma comunque determinata a non permettere alle mie paure di prendere il sopravvento, quando mi ricordai di Tim. Lo cercai con lo sguardo, non c’era. Lo chiamai. Non rispose. Feci un giro della casa, continuando a chiamarlo. Nel camino giaceva la bambola, nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata. Aveva tutto l’aspetto di un oggetto qualunque, di cui è ridicolo avere paura. Il fatto però è che me lo dovetti ripetere più volte, per arrivare a crederlo. Le suggestioni del sogno erano ancora tutte lì, vivide nella mia coscienza.
Continuai la ricerca. Era del tutto anomalo che Tim non rispondesse al mio richiamo.
Poi lo vidi.
Vidi una sua zampina.
Rimasi un attimo paralizzata, prima di fiondarmi sul suo corpicino quasi del tutto coperto dalle lenzuola sul mio letto.
– Tim! – Urlai mentre appuravo che il mio cagnolino non respirava più. Provai a scuoterlo, spinta da un’ultima vana speranza.
Immediatamente ricordai il sogno di quella notte e il suo valore di premonizione. Mi sentii mancare.
Ormai era certo, c’era qualcosa … qualcosa di malvagio collegato con la bambola maledetta. Se prima avevo dei dubbi ora non più. Tutto era cambiato da quando era comparsa … Una irrequietezza che avevamo chiaramente avvertito, sia io che Tim. E poi il sogno, carico di presagi che si sono avverati ancora prima che facesse giorno, come in un sortilegio, una magia malefica.
Mi misi a piangere per la triste sorte toccata al mio cagnolino, chiedendomi perché e per quale oscuro piano dovesse morire. Mi sentivo come una lastra di gelo sulla schiena e un irrigidimento quasi totale dei muscoli dovuto al terrore che attanagliava ogni fibra del mio corpo.
Ero come piombata in una dimensione altra, di cui non conoscevo le regole e le strategie di sopravvivenza. Che fare … fuggire? Chiamare qualcuno?
Presi in braccio Tim, lo accarezzai e sempre piangendo mi incamminai lungo il corridoio. Tutte le luci della casa erano accese, ma non bastava questo a ridarmi la confortante certezza di una realtà familiare e rispondente alle leggi fisiche. Giunta davanti alla porta del soggiorno mi venne pensato che non era per nulla scontato che Barbie fosse ancora dove l’avevo lasciata.
Affrettai il passo verso l’ingresso, e letteralmente mi fiondai in direzione della macchina. Aprii la portiera del passeggero e deposi Tim sul sedile. Quando ero in campagna avevo l’abitudine di non chiudere a chiave l’auto. Tuttavia delle chiavi avevo bisogno, se volevo filare via. Chiusi la portiera con un sospiro. Dovevo tornare dentro. Mi riavventurai in casa, respirando in modo forzato. Le chiavi erano sul mobile del soggiorno. Mi obbligai ad entrare in quella stanza.
Che Barbie potesse essersi animata era una possibilità che non potevo scartare, e ci credevo al punto che vedendola in una postura assolutamente immodificata rispetto a prima, mi sorpresi addirittura. C’era qualcosa … c’era qualcosa.
Senza che gli avessi dato eccessiva importanza, l’alba era già iniziata e solo in quel momento me ne resi conto. Spensi le luci, presi le chiavi, anche quelle di casa e uscii, chiudendo.
Portai Barbie con me. Assurdo. Perché lo feci? Forse fu la parte sana di me, quella dotata di pensiero scientifico, quella che aveva dovuto lottare per non soccombere.
Appena potei, cioè dopo essere passata da casa in città ed essermi vestita – ero fuggita in camicia da notte e ciabatte – andai da mamma e col nodo in gola le raccontai tutto.
La sua fragorosa risata mi lasciò di stucco e umiliata.
Subito dopo prese la bambola e i suoi occhi si inumidirono.
– Era la mia Barbie. E ti assicuro, tesoro, che poteri soprannaturali non li ha avuti mai. – E si lasciò sfuggire un’altra risata. – Quanto l’ho odiata, non te lo immagini!
– Allora sei stata tu a ridurla così?
– Diciamo di sì. Non che lo volessi proprio, fu un incidente. I miei genitori si ostinavano a regalarmi bambole, collanine e tutto l’armamentario di una bambina. Quando a Natale mi presentarono la Barbie, pensavano che avrei fatto salti di gioia. All’epoca erano poche le bambine che avevano la Barbie. Io provai a giocarci, ma dopo che l’hai spogliata e rivestita, che altro ci puoi fare con una Barbie? Niente. E non capivo perché i giocattoli più divertenti fossero tutti etichettati da maschio. Quell’inverno allora mi inventai un nuovo gioco. Avevamo una stufa a legna, con la piastra di ghisa. Quando non c’era nessuno nel tinello per vedermi, io spogliavo la Barbie, le bagnavo i capelli e poi, tenendola per le gambe, davo un colpo di frusta sopra la piastra della stufa, facendo attenzione a non toccarla. L’effetto era che una miriade di goccioline d’acqua piombava sulla ghisa infuocata e ffffffh! una nuvola di vapore saliva. Questo sì che era divertente! Solo che una volta, ci ho messo più forza del dovuto e sbam! La testa della Barbie ha sbattuto sulla piastra. In un attimo le si è sciolta metà della faccia e i capelli si sono tutti raggrinziti. Per paura di mamma e papà, ho pensato bene di nasconderla e fare in modo che non venisse più ritrovata. Così l’ho sepolta in giardino. Una volta mamma mi chiese che fine aveva fatto la Barbie. Le mentii, dicendole che stava in camera, ma che non mi andava più di giocarci. Finì lì. Sono passati … fammi pensare … dunque … circa cinquant’anni. Tutto questo tempo è rimasta lì. – Mamma concluse il suo racconto, visibilmente commossa dall’avere tra le mani un ricordo della propria infanzia.
La bambola ora mi appariva esattamente per quello che era: una bambola. Vecchia e distrutta da una bambina che non l’aveva amata.
Ma non poteva essere solo questo.
– Però, mamma, qualcosa c’è … qualcosa c’è! – Mi agitai – Io lo sentivo, lo percepivo, un senso di … una specie di alone di … Anche Tim lo sentiva. Poi l’ho sognato … e Tim è morto!
Mamma mi squadrò preoccupata più che divertita, stavolta. Poi mi rivolse una domanda che mi gelò: – Dimmi una cosa, tesoro. Fai finta di non aver ritrovato la bambola. Fai finta di essere stata tranquilla e spensierata, ieri sera. Vedendo Tim mogio mogio, che guaisce e che tiene la coda tra le gambe, cosa avresti fatto?
Non risposi. La risposta me la diedi silenziosamente.
L’avrei portato dal veterinario.
– Tim era vecchio, tesoro, lo sai.
Non c’era bisogno di aggiungere altro. Era tutto chiaro. Mamma era sempre stata di un esempio di lucidità di pensiero e di razionalità. Credo che rimase delusa di me, quella volta.
A me restò un grande senso di colpa per la morte di Tim. Se non mi fossi fatta suggestionare come una sciocca, forse il veterinario avrebbe ancora potuto fare qualcosa per lui. Ripensai a quella notte, al mio sogno e a quello che avevo erroneamente interpretato come una premonizione. Può darsi che una parte di me avesse decifrato i segni del malessere di Tim e il sogno non era altro che la rappresentazione dei miei giustificati timori. Se è vero come è vero, poi, che noi integriamo nei sogni anche i suoni e le voci che ci sono nella realtà, allora è perfino verosimile che quando nel sogno Tim guaiva spaventato dalla terribile Barbie, stava realmente guaendo mentre moriva, accanto a me nel mio letto. Mi venne da piangere a questo pensiero.
Mamma conservò gelosamente la sua Barbie, da quel momento in poi. Mi disse che ormai per lei rappresentava la sua ribellione in embrione, prima che esplodesse nei suoi vent’anni, quando si unì alle istanze del femminismo. Parlava sempre con grande orgoglio di come fin da bambina, aveva rifiutato gli schemi, gli stereotipi e quella volontà patriarcale di modellare le bambine per farne delle bamboline al servizio dei bisogni e dei piaceri maschili.
In un certo senso, la mia prima sensazione, che la Barbie fosse stata deturpata da una qualche forma d’odio, non era falsa.
Della ribellione di mia madre ero grata, perché avevo indubbiamente beneficiato di una educazione che mi lasciava aperte tutte le porte, anche quelle che tradizionalmente erano considerate sconvenienti o non alla portata di una ragazza.
Se io ero così, più libera di chi mi aveva preceduto, lo dovevo anche a quella bambina che, cinquant’anni fa, seppellì la sua bambola.
Barbie doveva morire.
Questa è una storia parzialmente vera. Esiste veramente una Barbie (la mia) che è andata incontro allo stesso destino qui descritto, con la differenza che non è mai stata ritrovata. Il resto è fantasia.
Il racconto è stato selezionato all’interno di un concorso letterario per far parte dell’antologia “Racconti marchigiani” edito da Historica edizioni, nel 2016.