C’era una volta in Sardegna è una raccolta di racconti, uniti in modo originale da un filo conduttore che dà loro una logica e un senso globale. Può darsi che etichettarlo come semplice “horror” sia molto riduttivo, perché è molto di più, quello che vi si trova dentro.
Veramente splatter sono solo alcuni momenti, in cui è evidente che l’autore si abbandona al macabro e al raccapriccio fin dove riesce a spingersi la sua immaginazione, per il semplice gusto di farlo e, forse, per sfida verso il lettore, del tipo: “vediamo se il tuo stomaco ti permette di starmi dietro fino in fondo”.
Sono solo momenti, dicevo, perché le vere protagoniste del libro sono le atmosfere e i luoghi malati, insalubri, morbosi e tuttavia sensuali che caratterizzano la cittadina di Solus. Sensuali perché il linguaggio utilizzato è sensoriale, permette al lettore di toccare, odorare, sbirciare da vicino nei recessi di un mondo insano, che tuttavia attrae in modo irresistibile. In questo clima, che si può respirare a pieni polmoni attraverso le parole di Ibba, il dettaglio horror finisce per essere un fatto accessorio, nemmeno poi così rilevante e tuttavia necessario e inevitabile.
Non è un mondo altro, Solus. È spaventosamente vero e presente. È il confine del nostro mondo. I racconti di Ibba sembrano nascere non solo dalla fantasia, ma da esperienze vissute e sentite di sradicamento, spaesamento, terrore reale, con cui si ha ormai preso confidenza per spirito di sopravvivenza. Sarà per questo che sembrano vissuti nella carne e nella carne del lettore entrano.
A coinvolgere non è il dettaglio raccapricciante, quindi, bensì l’aria contaminata, come una mal-aria che sale dalle pagine e da cui non puoi fuggire. Non vuoi.
Il libro finisce. Ritorni alla sanità mentale. E rimpiangi la febbre che ti scuoteva fino a poco prima.
