In una famiglia ci sono le cose che si dicono, le cose a cui si assiste, e poi ci sono le cose che si respirano.
Insieme all’aria secca dei termosifoni d’inverno, insieme alle esalazioni dense del tegame del ragù, o insieme al profumo di una colazione col Nesquik. Ci sono presenze nell’aria. A volte ostili, a volte tristi. Ce ne sono anche di allegre, ma quelle non ti condizionano la vita tanto quanto vorresti. Ci sono pensieri che viaggiano sulle onde degli spifferi e un senso di minaccia che circola sospinto dalle correnti da finestra a finestra. Fa sbattere porte e, insieme, fa sbattere ossa, tremare denti, stringere pugni, senza la minima possibilità di intuirne il motivo. Dall’aria passa ai polmoni e poi direttamente ai muscoli che si contraggono.
Ci sono tante cose, nell’aria che riempie le stanze di una casa. A volte si traducono in sensazioni vaghe, a volte ne afferri il vero senso più avanti con gli anni e allora ti spieghi tutti i perché. Ma questo avviene di rado. Quando accade, può prendere la forma di una tromba d’aria che trascina nel suo vortice tutto quello che incontra nel suo percorso, sollevando a suo piacimento biciclette, palloni da calcio, auto e muri delle case come avessero lo stesso peso, ridistribuendoli a terra distrutti, lungo la scia del suo passaggio capriccioso.
Sono nella casa dei miei nonni ora, seduta sul loro letto, a fissare nella penombra la foto sul comò di un austero matrimonio del dopoguerra. La seduta di psicoterapia, come una folata, mi ha portato qui.
I nonni non ci sono più. Non ho perso tempo a tirare su le serrande e la luce del sole arriva sul marmo del comò a strisce strette e lunghe circondate da un pulviscolo danzante nell’aria stantia. I miei occhi sono rigonfi di una stanchezza antica, oltre che di lacrime spremute. Sono senza forze e frastornata, dopo la seduta, mentre la vecchia foto continua a esibire sempre uguali i sorrisi tenui di due sposi, sorrisi ignari del dolore che verrà. Per mia nonna, almeno.
“Ti va di approfondire questo stato d’animo con un esercizio immaginativo?” mi ha detto poco fa, da dietro i suoi occhialoni tondi e blu, la psicologa.
La mia curiosità ha risposto per me: “Certo!”
È così che è cominciato. Sono troppo sconvolta per capire se sia stato un bene o un male. Di certo è la risposta che cercavo e la psicologa l’ha tirata fuori così, dicendomi di sintonizzarmi sul respiro. È l’unica che sembra capace di guardare con tenerezza ai miei scatti di rabbia, per questo mi fido di lei. Tutti odiano questo lato di me, me compresa, ed era ora di cominciare a capirci qualcosa. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il mouse. Con tutte le ragioni del mondo, lì la cosa è sfuggita di mano. Per questo se mi dice di respirare, io respiro, obbediente.
Adesso il respiro non è più leggero come quando ero sulla poltrona della psicologa. È soffocato e stretto, tra le spalle curve. Fisso quella foto che da bambina guardavo con la curiosità di chi non si dà ragione di come le sopracciglia bianche e arcigne di nonno fossero state un tempo brune e affascinanti, o di come degli orecchini di perla così obsoleti potessero apparire tanto deliziosi ai lobi di una ragazza composta e sognante. Il mio sguardo su quella foto è cambiato e la storia che ci sta dietro resta stagnante nella mia coscienza come un ospite indesiderato. Dietro la compostezza di nonna vedo ora solo sofferenza repressa, pianti invisibili, resistenza silenziosa.
E tutto è iniziato da un mouse. A occhi chiusi, respirando lenta, la mia mente è andata dove mi ha portato la psicologa. Mi ha detto di soffermarmi sulla situazione in cui ho perso il controllo, di ricostruirla nella mia mente, riviverla in modo pieno e vivido. Ho iniziato a vedere i particolari della scena: la scrivania, il computer davanti a me, più in là il ticchettio delle dita di Serena sulla sua tastiera, la sensazione della poltrona da ufficio sotto le mie natiche, il fiato sul collo del titolare. E poi l’odore di quel fiato. “Mi raccomando cara, io punto su di te, spero ti rendi conto che non tutte hanno l’opportunità che io ti do”.
Ruoto la testa di poco verso i suoi denti affacciati da quel finestrone osceno che è la sua bocca, più per ritrarre il collo dalla zaffata, che per il desiderio di guardarlo in faccia.
“Io. − dice − Io ti do.” È lui che dà a me un’opportunità a suo arbitrario e insindacabile giudizio. Un modo di dare stima a me che innalza se stesso, esalta il suo potere, sottolinea un vincolo di gratitudine e di sottomissione. Sento i muscoli della mano destra ricevere una fatale scossa. Il petto si riempie d’aria e d’odio, le dita si stringono attorno al cavo del mouse, il polso fa una rotazione maledettamente precisa. Il mouse piomba sui suoi denti dopo un simpatico svolazzo in aria. Uno schianto e le labbra da cui era uscita la frase immonda lasciano uscire un gemito sbuffante. Serena urla, il titolare si porta le mani alla bocca rosso sangue e io, dopo un lampo di euforia vittoriosa, torno alla realtà. La mia laurea in Legge, inutilizzata finora, mi mette davanti con glaciale lucidità il conto da pagare per il mio gesto impulsivo. Lesioni personali volontarie. Art. 582 Codice penale. Da sei mesi a tre anni. Con la sospensiva dal momento che non ho altre condanne definitive, ma se continuo così finirò per averle, prima o poi. Ecco la strada che ho davanti: disoccupata a breve termine, avanzo di galera a medio-lungo termine.
Mi suonano nella mente le parole di mio padre: “Cosa dobbiamo fare con te? Cosa ti manca? Non ti abbiamo forse insegnato l’educazione? Cos’hai che non va!” Per tutta la vita mi sono sentita sbagliata e cattiva. Odio questo lato di me così arrabbiato. Mi porta un guaio dietro l’altro, non tengo un lavoro che sia uno o un ragazzo che sia uno. Anche chi mi vuole bene non nasconde il fatto che mi ama nonostante io sia così.
Terribile mi torna un’immagine, devastante, triste, di mia madre che, con le spalle accasciate, sussurra: “Sei come tuo nonno.”
La deriva verso il disgusto di me è inevitabile, se non fosse che la dottoressa stranamente non prende la strada del rimprovero, non mi dice che sono stata pessima, invece mi dice di tornare indietro, come schiacciando il tasto rewind e riposizionarmi nel momento peggiore per me, prima che la mia rabbia esplodesse.
“Qual è la sofferenza − mi chiede − qual è la ferita che c’è dietro questa rabbia?”
Non lo so, so solo che c’è paura e un senso di pericolo. Sento umiliazione e ingiustizia, vincoli abusivi e spaventosi. Sento la gola che si serra, un vuoto nell’addome, una disperazione che mi esplode nel petto. È da lì che viene la bestia che senza guardare in faccia nessuno balza fuori con la ferocia che non so trattenere. Non si può addomesticare, è una spinta incoercibile a combattere.
La voce della psicologa è dolcissima. “Entra in quella disperazione, sentila, soffermati. Rimani in quel senso di pericolo e ingiustizia. Tieni vicino a te le sensazioni che hai nella gola, nell’addome e nel petto. Loro sono la tua bussola ora, fatti guidare indietro nel tempo. Torna a quando eri bambina e ti sei sentita così.”
Ed eccomi lì, a casa dei nonni.
“Quanti anni hai?” Il tono della psicologa non è più solo dolce, è anche acuto e musicale, come quando si parla ai bambini.
Sette.
“Sei piccolina. Guardati intorno. Dove sei? Cosa sta accadendo?”
Nonno è venuto a prendermi a scuola. Mamma non è contenta che io stia troppo tempo qui, ma lavora e non ha scelta. C’è il pranzo pronto, ma nonna non verrà a tavola. Appena entro, sento subito che c’è qualcosa che non va nell’aria. Nonna non verrà, lo so, perché quest’aria l’ho sentita anche altre volte e questo è quello che accade.
“Come ti senti qui?”
Strana. Confusa. Attenta. Molto attenta. So che nonna è di là e non verrà. Sento la sua voce: “Ciao Mia! Com’è andata oggi?” Ma non è contenta, non è leggera, non è curiosa. Dice in modo meccanico quello che di solito le esce in modo interessato e allegro. Venendo a tavola, nonno rivolge verso l’altra stanza uno sguardo di disprezzo. Quando è arrabbiato gli si formano due grinze nel naso aquilino e la bocca fa una smorfia di disgusto. È questione di un secondo e la sua espressione subito cambia. Basta un battito di ciglia che scivolano giù come un cancellino su una lavagna e l’attimo dopo dubito perfino che sia accaduto.
“A tavola, forza.” mi intima. Ma io stavolta me ne sbatto e vado di là. Nonna è sul letto spaventata e triste. Trattenuta davanti a me, ma immensamente triste. Un respiro ha saltato il ritmo, portato via da una tramontana misteriosa e fredda che mi attraversa il petto. C’è una tensione che viene da quale spiffero, da quale esalazione? “Nonna, non mangi con noi?”
No, non verrà.
D’istinto so che è colpa di nonno, anche se non so bene di cosa accusarlo. “Ti odio!” gli urlo, per poi sentirmi stupida subito dopo, perché nonno è sempre stato carino con me.
Nell’immagine evocata dalla psicologa irrompono improvvisamente tante, troppe cose tutte insieme. Cose di epoche diverse e momenti distanti tra loro. Cose che si respirano.
I pianti di nonna in bagno. Il buco tondo nella porta della cucina, grande come un pugno. Nonna in ginocchio a raccogliere il tegame del sugo rovesciato a terra. Nonna senza amiche, senza soldi, senza desideri. Nonna tante volte chiusa in camera. Le sopracciglia crudeli di nonno e la sua voce che fa tremare i vetri.
E io urlo, urlo tanto, e sbatto, e urlo ancora: “Ti odio!”
Ritorno alle pieghe giallastre della vecchia foto sul comò. La cornice è sottile e intagliata con l’amore di un corniciaio degli anni Cinquanta. La mia rabbia, anche lei, ha finalmente una cornice. Ha lo stesso impeto della sete di giustizia e la stessa urgenza della fame d’aria. Finalmente so cosa farne, della laurea in Legge.
No, non sono come mio nonno.
Sono il rancore delle donne vissute nel terrore e nella tortura. Sono il grido di bocche zittite. Sono una furia di disobbedienza. Sono un vento indisciplinato che fa sbattere le finestre.
Sono la voce di mia nonna.