Le congetture di Dalia
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Racconti brevi, piccoli misteri quotidiani, riflessioni sul giallo di Elena Grilli
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La panzanella

racconto

Mi lascio cadere sulla seggiola di formica. Il mondo intorno si è svuotato in un attimo. Le voci gagliarde delle infermiere piombano in un sottofondo di improvviso silenzio.

È tutto attutito ora, e lontano. Il cellulare vibra. So che è Patrizio a cercarmi senza sosta. Solo mezzora fa mi sembrava vitale rispondergli subito. Lui e il suo bisogno di controllarmi. Lui e i suoi sospetti. Lui e i suoi “bugiarda!”

Mi penso come guardandomi dall’esterno: su una seggiola di formica e le mani a tenere un piattino con sopra una panzanella. Sto offrendo uno spettacolo strano a chi transita in corsia, ma non mi importa. Come lo dico a babbo, che nonna non c’è più? Per le infermiere era una vecchietta un po’ tocca. Negli ultimi giorni insisteva che aveva bisogno di una panzanella per stare meglio e quelle replicavano con quel modo odioso che si usa per gli anziani come per i bambini: “Su, su, Emilia, niente capricci!”.

Per sbrigarmi ho fatto la versione più rapida: solo olio e sale. Ma sono arrivata tardi, nonna è morta senza la sua panzanella. Non dovrebbe mai finire così, l’ultimo desiderio lasciato sospeso. L’universo non lo dovrebbe permettere. Era un desiderio tanto semplice, in fondo. L’ultima cosa che potevo fare per lei è rimasta incompleta, nelle mie mani. Cosa ne farò ora?

Come avesse il potere di una madeleine, il profumo denso e verde dell’olio sale a portarmi un’immagine. La memoria mi restituisce un volto spento, grigio come la cenere, accanto al vecchio camino. Nonna è sola. Quante volte l’ho vista mangiare seduta coi piedi sul basamento oppure con la testa appoggiata all’architrave, le pennellate arancioni del fuoco tremolanti sulle guance. Non era mai felice, nonna, quando mangiava la panzanella e non so perché. Parlare con lei non è mai stato facile, come ci fosse un vetro insonorizzato tra di noi. Cosa so veramente della sua vita?

Faccio per alzarmi. Devo andare a dare la notizia a babbo e poi credo che insieme andremo in obitorio.

«Sei Lucia?». Davanti a me c’è una donnina esile e quasi persa nella gonna che le arriva alle caviglie. Le faccio segno di sì con la testa. Deve essere la figlia della vicina di letto.

«Condoglianze».

Ringrazio con lo stesso movimento di prima. Le parole mi sembrano sciocche. Vorrei non avere l’obbligo di interagire.

«Tua nonna mi ha parlato molto di te. Non sempre era in sé, negli ultimi giorni, però mi ha detto tante cose».

Non so perché questa informazione mi sorprende. È normale che abbiano chiacchierato. Che abbiano parlato di me, ecco, questo mi fa strano. Mi siedo di nuovo, per farle capire senza dover parlare, che voglio ascoltare. Appoggio il piatto sul letto rimasto vuoto.

«Era tanto orgogliosa della tua laurea. Non faceva che ripetere che sua nipote era una dottoressa. Era anche tanto preoccupata, però. Io forse dovrei farmi gli affari miei, ma vedi, ho parlato con tua nonna per giorni e si sa, è più facile aprirsi con un’estranea piuttosto che essere franchi con le persone vicine».

«Era preoccupata per me?». Sono incredula.

Annuisce piano, incerta sul modo di proseguire. «Sentiva che il ragazzo che hai non fosse… non so come dire… non era contenta della tua scelta, ecco. Scusami, mi sto prendendo io la responsabilità di dirti una cosa spiacevole. Non so se faccio bene». I suoi occhi tuttavia non mostrano dubbi. Hanno piuttosto quella severità, diluita con una goccia di amabilità, che avevano le maestre di una volta.

«No, non me l’aveva mai detto». Abbasso lo sguardo piena di vergogna, come se il suo silenzio fosse colpa mia, per qualcosa di sbagliato in me.

«Ha detto anche: “Una volta non si poteva cambiare, ma lei potrebbe cambiare, se volesse”. Con tuo nonno non è stata felice. Lui la tradiva, senza farne troppo segreto. Sai cosa faceva lei ogni volta che lo scopriva?».

Scossi la testa. Per me era già sconvolgente che mio nonno fosse stato un traditore seriale!

«Si mangiava una panzanella. Per lei portare in tavola piatti più elaborati sarebbe stato come ribadire una sottomissione a un uomo che non lo meritava. E mangiare con lui le era insopportabile. Lo sto dicendo con parole mie, ma il senso era questo. Tuo nonno si arrabbiava quando la vedeva bagnare e condire il pane raffermo e poi andare a sedersi accanto al camino. Pensava fosse uno sgarbo a lui rivolto, una punizione per il tradimento. Invece no. Lei lo faceva per se stessa».

Fece una lunga pausa, poi aggiunge: «Il buono tirato fuori dallo scarto, qualcosa da buttare che riacquista valore. Capito? Può darsi che tua nonna non avesse potuto studiare, ma non posso non pensare a quanta filosofia ci fosse in questo gesto, quanto fine e potente pensiero ci fosse dietro. Un modo simbolico per riposizionare lo sguardo sul proprio valore dopo l’umiliazione. Un gesto di resistenza e di ribellione silenziosa, forse l’unico concesso a una donna della sua generazione. Forse l’unica protesta capace di colpire davvero il destinatario del gesto».

Sono frastornata e confusa. «È per questo che ha chiesto la panzanella prima di morire? Perché per lei era un conforto? Sarà per questo?».

Mi fissa per un po’, prima di rispondere. «Io credo che la volesse per te».

Mi alzo, prendo il piatto e vado, dopo aver rivolto alla signora uno sguardo di gratitudine. Appena fuori, porto alla bocca la fetta di pane ammollato e sommariamente condito. Vi colgo il sapore dell’essenziale, la leggerezza di una fantasia di libertà. La panzanella di nonna. Liscia, come un respiro d’aria pulita. Basica, come un abbraccio. Buona, come la parola buona di chi ti ama davvero.

Mi sembra di sentire la voce di nonna Emilia, ora: “Scegli la cosa buona per te”.

Questo mi dice.

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